AOSTA «Quasi un mese di isolamento, nella camera di un albergo deserto, a Pila, in Valle d’Aosta, lontano più di 1.300 chilometri dalla mia famiglia che abita in Calabria». Oltre che con il Coronavirus, Roberto Petrolillo, 48 anni, di Capo Rizzuto, ha dovuto combattere con nemici ancora più insidiosi: la solitudine e la nostalgia. È il responsabile della manutenzione di una grande struttura ricettiva della località sciistica sopra Aosta e il virus lo ha beffato dopo una settimana dalla chiusura dell’8 marzo, quando la folla di 750 turisti, tra cui molti lombardi, era già scemata da alcuni giorni.
«Sono dovuto rimanere a Pila per le ordinarie attività di manutenzione e messa in sicurezza dell’edificio: il 14 marzo – racconta ora, dopo essere guarito e rientrato in Calabria – ho saputo che un cuoco si era sentito male ed era risultato positivo al Covid-19, alla sera è arrivata la febbre». Da quel momento è iniziato l’isolamento all’interno di camera, in un enorme stabile ormai disabitato. «Sono rimasti due colleghi, non malati e bloccati lì dalla restrizioni nazionali, che mi hanno assistito a distanza e mi consegnavano il cibo davanti alla porta», spiega ancora Roberto. Il decorso della malattia non è stato preoccupante, solo febbre alta e un po’ di affanno, ma la condizione di isolamento è stata dura: «L’esperienza più traumatica è stata la solitudine e la lontananza da casa, dai miei tre figli, ho provato molto dolore, non fisico, mi sono aggrappato a tutto, pensavo a quelli meno fortunati di me che si trovavano in ospedale e ho iniziato a pregare».
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