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«Le opportunità e i rischi dello smart working»

di Vincenzo Corvello*

Pubblicato il: 13/04/2020 – 16:58
«Le opportunità e i rischi dello smart working»

Nella sua conferenza stampa di venerdì il Presidente del Consiglio dei Ministri ha ritenuto di dover inserire, fra i temi da porre all’attenzione degli italiani, l’organizzazione del lavoro e la necessità di ripensarla durante e dopo la crisi che stiamo vivendo. Assieme alle doverose riflessioni sull’emergenza sanitaria in atto, su quella economica che incombe, sulle criticità della finanza pubblica internazionale, ha posto il problema della trasformazione che sta subendo la nostra vita lavorativa. La questione non è, evidentemente, di poco conto. Le organizzazioni sono il luogo in cui, attraverso il lavoro, diamo il nostro principale contributo alla società. Ma non solo: sono anche il contesto in cui passiamo buona parte della nostra esistenza e, in diversi modi, influenzano il modo in cui viviamo la restante parte del nostro tempo. Se cambia il modo in cui organizziamo il nostro lavoro, ne abbiamo avuto la prova in questi giorni, cambia il modo in cui viviamo. Ci siamo tutti trovati catapultati in un cambiamento radicale della nostra dimensione lavorativa, senza essere affatto preparati, per certi versi ciascuno dando per scontato il modo in cui lavora. Il gruppo di lavoro istituito dal Premier e costituito da esperti di indiscutibile competenza, elaborerà nelle prossime settimane (mesi?) protocolli di comportamento e linee guida perche ciascuno di noi possa riprendere in sicurezza la propria attività. Ma non sarà la stessa attività quella che ritroveremo. Per un periodo di tempo più o meno lungo, nessuno sa esattamente quanto, chi tornerà fisicamente nella propria sede di lavoro dovrà osservare le misure per il “distanziamento sociale”. Un gran numero di lavoratori, poi, continuerà a svolgere la propria attività in remoto. Penso, ad esempio, agli insegnanti, ai lavoratori intellettuali in genere, ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni. Gli strumenti che saranno resi disponibili dal gruppo di lavoro nazionale non potranno essere applicati asetticamente, ma dovranno essere letti, contestualizzati e messi in pratica. Da qui l’esigenza di una riflessione diffusa su questi temi. Le organizzazioni non hanno il solo fine di dividere e coordinare il lavoro. Offrono il contesto per l’apprendimento e la crescita professionale, la motivazione personale, la creazione di senso. Come cambieranno questi aspetti nelle “nuove organizzazioni”? Smart working, è il termine che abbiamo imparato a usare per descrivere le nuove modalità di lavoro, qualunque esse siano. Un termine che prima dell’emergenza indicava, per chi si occupa di organizzazione, non una necessità, ma un’opportunità. L’opportunità, sfruttando le nuove tecnologie, di rendere il lavoro più adatto alle esigenze e caratteristiche individuali, rafforzando allo stesso tempo le capacità di ciascuno. Lo smart working può facilitare la conciliazione fra tempi di vita e tempi di lavoro e può rendere più efficaci le prestazioni di chi si sposta di frequente. Anche le capacità di chi ha una postazione fisica stabile presso la propria organizzazione possono essere “aumentate” attraverso l’uso di tecnologie per la connessione. Oggi, costretti a ricorrere a modalità di interazione per le quali nessuno ci ha preparati, rischiamo di commettere degli errori. Un approccio semplificato allo smart working, come tutte le letture semplificate, è un approccio pericoloso. Ciascuno di noi svolge un compito nella propria organizzazione e riceve risorse che lo aiutano a svolgerlo. Alcune risorse sono evidenti: un computer, una scrivania, colleghi che svolgono compiti complementari. Altre sono meno visibili: informazioni, consigli, scambi di conoscenza, stima, gratificazioni sociali. Pensare che una persona sottratta al suo contesto di lavoro possa svolgere lo stesso compito senza immaginare modalità per sopperire alla mancanza di certe risorse materiali, psicologiche e sociali, è operare la pericolosa semplificazione di cui parlavo. Quel che accadrebbe è che si lascerebbe pesare unicamente sulle spalle del lavoratore lo sforzo di compensare tutte le risorse organizzative che vengono meno. Un po’ come è accaduto negli scorsi decenni quando l’introduzione del lavoro flessibile ha costretto i “precari” a procurarsi da soli ciò che precedentemente erano le organizzazioni rendere disponibile: formazione, esperienza, percorsi professionali, garanzie. Un costo enorme spostato tutto sugli individui. Senza una riflessione a riguardo, anche la transizione allo smart working comporterà uno spostamento dei costi sugli smart worker. Gli italiani – è un luogo comune, ma anche un risultato della ricerca in materia – sono lavoratori estremamente adattabili e pieni di iniziativa. In altri termini, cono culturalmente smart. Sono in grado di trovare da soli le loro soluzioni in questo nuovo contesto. Fare affidamento, però, solo sulle capacità degli individui, senza fornire risposte organizzative, finirebbe per produrre fatica, frustrazioni e, in definitiva, un impoverimento della qualità dei risultati lavorativi, nonché della vita dei lavoratori. Quali sono, dunque, le misure che consentono di evitare questi rischi? Propongo solo alcuni spunti. Certamente un contributo importante viene dall’intervento pubblico. Ci si deve far carico, come in parte si sta facendo, di mettere a disposizione dei cittadini infrastrutture, strumenti e servizi di interesse comune che facilitino la connessione (ad esempio pc e tablet) e, quando necessario, consentano spostamenti in sicurezza (si pensi al trasporto pubblico locale). Così come di primo piano è il ruolo che svolgono le organizzazioni sindacali in tutte le loro funzioni, non solo in quella di rappresentanza. È fondamentale il ruolo dei dirigenti. Sono loro a dover presidiare le risorse organizzative che vengono meno con lo smart working. Una maggiore attenzione agli aspetti relazionali e al trasferimento di informazioni e conoscenza sono una responsabilità precisa. Gli strumenti informatici che abbiamo imparato a utilizzare (document sharing, web conference, social network) possono diventare il luogo di interazioni informali che prima avvenivano in presenza. In particolare nei riguardi dei colleghi più giovani, un’attenzione alla crescita professionale è indispensabile. Bisogna rafforzare i feedback. Quando si condivide uno spazio fisico, si percepiscono facilmente le difficoltà dei dipendenti, così come di clienti e altri attori. In remoto queste informazioni vanno cercate attivamente. Venendo allo specifico contesto calabrese, una necessità critica è una maggiore attenzione alla formalizzazione. La cultura organizzativa informale che caratterizza il modo di lavorare in Calabria (come in tutta l’area mediterranea) in sé può essere un punto di forza, poiché favorisce la flessibilità e la capacità di adattamento. In questa fase, però, rischia di essere disfunzionale. La scarsa abitudine a mettere per iscritto ciò che si intende fare può portare a incomprensioni e mancato coordinamento. La preoccupazione di non poter controllare i collaboratori, che è stata da sempre la principale problematica associata al lavoro a distanza, si è dimostrata nel tempo meno rilevante di quanto si potrebbe pensare. Motivazione, trasferimento di conoscenze, facilità di interazione sono le vere criticità su cui concentrarsi. Riflettere in anticipo sui cambiamenti in atto può rappresentare un’occasione per limitare i problemi, migliorare la qualità della vita privata e lavorativa e, addirittura, acquisire vantaggio competitivo rispetto ad altri contesti. Aspettare passivamente che il cambiamento si realizzi significa perdere un’occasione. Poi, per carità, gli smart worker calabresi se la caveranno egregiamente e troveranno il loro modo di superare ogni difficoltà. Ma a che prezzo?

*Docente di Strategia e Organizzazione, all’Università della Calabria

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