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«Non c’è vento favorevole per chi non sa dove andare»

di Antonio Viscomi*

Pubblicato il: 14/04/2020 – 14:20
«Non c’è vento favorevole per chi non sa dove andare»

A volte, le parole utilizzate confondono più di quanto servano a chiarire e suggestionano più di quanto riescano a spiegare. Ad esempio: continuare a parlare di “fase-uno” e “fase-due” rispetto all’emergenza epidemiologica a me pare possa ingenerare una falsa percezione della effettiva situazione, quasi fosse possibile, con un taglio chirurgico, stabilire una cesura tra azione di contrasto alla diffusione del virus (fase-uno) e la ripresa della normale vita sociale ed economica (fase-due). A me pare, invece, e certo non solo a me, che fase-uno e fase-due non siano stati sequenziali, ma semmai parte di un unico processo che chiede di ripensare fin da subito le dimensioni dell’esistenza, tanto sul piano individuale quanto su quello collettivo. Di fronte ad un virus insidioso e non facile da trattare, che impedisce di respirare e prima ancora di sentire il sapore e il profumo delle cose più semplici, e con cui dovremo ancora convivere, è la stessa idea di normalità ad essere messa in discussione, anche e soprattutto quando riferita all’agire economico.

Prima riusciremo ad esserne consapevoli, prima e meglio, forse, saremo capaci di affrontare la ripartenza. Perché di ripartenza, più che di riapertura delle usuali attività, è necessario iniziare a parlare. Basti pensare all’impatto che il distanziamento sociale imposto, e più ancora la perdurante paura della vicinanza altrui, provocherà su tutte le attività economiche segnate da una intensa socializzazione. Basti pensare, ancora, all’evidente e ormai diffusa consapevolezza delle ampie potenzialità che le tecnologie digitali offrono per la riorganizzazione delle attività lavorative, di quelle educative e delle stesse relazioni interpersonali (salvo poi leggere, in questi giorni, i rapporti dell’Istat sul fatto che quasi la metà delle famiglie meridionali non ha un computer in casa e che le infrastrutture tecnologiche rasentano ancora, qui da noi, l’archeologia, nonostante tutti i soldi finora spesi e dispersi chissà dove, chissà come). Basti pensare, infine, ma è solo uno dei tanti esempi possibili, a tutte quelle catene del lavoro e del valore che hanno carattere globale, il settore della moda per esempio, e che ora devono cercare di conciliare la distribuzione internazionale del proprio processo produttivo con la differenziazione nazionale delle strategie di contrasto al Covid19.
Insomma, quando si dice che, dopo, nulla sarà come prima, non si è lontano dal vero. Ed è ancor più vero per sistemi economici fragili quale quello calabrese. Se è necessario assicurare liquidità al sistema, per consentire alla macchina di non fermarsi, e se è doveroso operare affinché le banche non tengano in pancia le risorse disponibili, come hanno fatto nella grande crisi dei subprime, a me pare altrettanto opportuno ed anzi necessario aiutare ed accompagnare tutti gli imprenditori – piccoli o grandi che siano – nella ridefinizione del proprio progetto produttivo e nel riassetto sostenibile della propria struttura istituzionale, incentivando, in questa fase, l’innovazione organizzativa, di processo e di prodotto, e promuovendo l’introduzione funzionale delle giuste innovazioni tecnologiche e digitali. Sia chiaro: non si tratta di comprare un nuovo computer ma di cambiare radicalmente l’agire d’impresa. Come sempre è successo, le crisi operano come una sorta di setaccio: alla fine rimane sono chi è stato capace di riorientare la propria azione. Da qualche tempo la chiamano, anche gli economisti, capacità di resilienza.
Per questo sarebbe un grave errore guardare al passato reputando di trovarvi le risposte alle questioni future. Errore che ancora oggi compie, ad esempio, chi correla il livello di tutela al contratto di lavoro e non al fatto di lavorare, con la conseguenza di dare il massimo di garanzie ai lavoratori subordinati e il minimo ai lavoratori autonomi, fors’anche perché da alcuni ancora ideologicamente considerati alla stregua di un notabilato di incalliti evasori fiscali quando invece sono i primi ad assumere il rischio dell’impresa e del mercato. Oppure chi ritiene che per mantenere livelli adeguati di occupazione sia sufficiente vietare il licenziamento e non anche sostenere l’agire imprenditoriale in un sistema economico innestato comunque sull’incontro libero tra domanda ed offerta. Il fatto è che il mondo del lavoro e dell’impresa è già ora molto più complesso di quanto si possa immaginare ed ha bisogni, prospettive e tempi che spesso sfuggono ai policies makers. E più che la finanza e le sue alchimie, saranno proprio l’impresa e il lavoro a disegnare, con una rinnovata centralità, il futuro comune.
Non a caso, l’esperienza dimostra che situazioni di crisi sistemica e globale, per essere superate, richiedono quello che viene chiamato lo “spirito del ‘45”, cioè il sentirsi in profondità una comunità di destino capace di superare odiose (e talvolte anche sanguinose) contrapposizioni in una azione corale utile per raggiungere un obiettivo collettivamente definito e condiviso. Per questo, oggi abbiamo bisogno, anche in Calabria, soprattutto in Calabria, di un diverso rapporto e di un diverso ruolo di tutti quei soggetti che la letteratura chiama stakeholder, che un costituzionalista definirebbe formazioni sociali o corpi intermedi e che del nostro tessuto democratico costituiscono gli elementi primari. E’ un termine, questo di stakeholder, correttamente e correntemente tradotto con portatori di interesse. Personalmente credo sia opportuno pensare a tutti costoro come portatori di competenze ed esperienze. Non si tratta di istituire pletoriche taskforce, tanto meno utili quanto più numerose. Si tratta piuttosto di stabilire insieme, con un nuovo patto sociale, la direzione di marcia di una regione, di un paese, una visione di sviluppo, insomma. Come già è successo in gravi momenti del passato. Già. Una visione. E una leadership in grado di animarla. Perché come diceva un grande saggio: non c’è mai vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare.

*deputato del Partito democratico

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