Il coronavirus che in questi giorni ancora incalza e atterrisce gli umani della Terra ha costretto la società globale, imbarbarita dal proprio delirio di onnipotenza, a fare i conti con l’idea del limite, fino a oggi respinta e rimossa a causa del profondo fossato filosofico che la separa dall’agente patogeno su cui poggia i suoi piedi d’argilla l’intero gigantesco sistema, vale a dire la sacralizzazione dell’economia in perenne crescita. Questa terribile malattia, ben più grave del covid-19, ha cacciato gli uomini di quest’epoca in un vicolo cieco, in un modello antropologico collegato con un’organizzazione produttiva tanto arrembante quanto assolutamente priva di futuro, che consuma ogni anno molte più risorse rinnovabili di quante ne possa rigenerare il Pianeta e che emette molte più sostanze di scarto di quante l’ecosistema globale sia in grado di metabolizzare. L’economia patologica, la dismisura che tutto travolge , e in primo luogo la cura della salute e delle relazioni sociali, pretende la libertà di arraffare, distruggere, avvelenare e concentrare le risorse disponibili nelle mani di pochi a scapito delle moltitudini schiacciate, alienate e affamate dal folle ingranaggio.
Si sapeva già da tempo che l’economia finalizzata alla crescita infinita della produzione e del consumo di merci avrebbe messo alle corde un ecosistema terrestre vasto ma pur sempre circoscritto, e compromesso di conseguenza le possibilità di sopravvivenza dell’umanità: si sapeva come minimo da quando un gruppo di studiosi del Massachusset Institut of Thecnology, sulla base di una accurata analisi dell’impronta ecologica del produttivismo forsennato, sostenne che il sistema industriale predatorio non avrebbe avuto più nulla da saccheggiare intorno alla metà del ventunesimo secolo, in uno scenario segnato dagli sconvolgimenti climatici che stiamo infatti vivendo. I risultati della ricerca sono stati pubblicati dal Club di Roma nel 1972, e dopo di allora l’evidenza del problema ha sollecitato una serie di Conferenze Mondiali sul Clima che però purtroppo non sono riuscite per nulla a incidere sullo scellerato andazzo: la spada di Damocle del riscaldamento globale, da tempo abbattutasi su un’ Africa ormai sfigurata dal caos climatico, dondola sempre più pericolosamente sulle gloriose teste degli occidentali finora insensibili al forte richiamo etico contenuto nell’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, pubblicata nel corso dello stesso 2015 in cui 195 nazioni sottoscrivevano l’Accordo di Parigi e ricca di passaggi di esemplare chiarezza come quello che segue : Il ritmo di consumo, di spreco e di alterazione dell’ambiente ha superato le possibilità del pianeta, in maniera tale che lo stile di vita attuale, essendo insostenibile, può sfociare solamente in catastrofi…
Sul versante di quelle frange dell’umanità preoccupate e desiderose di un cambiamento negli stili di vita e nella politica si colloca il nostro Laboratorio territoriale permanente, un tentativo di collegamento stabile in funzione di un’azione comune tra alcune associazioni della Calabria meridionale già avvicinate da una forte sensibilità ambientalista. La nascita di questo “cartello”, privo di struttura formale ma capace negli ultimi anni di animare riflessioni collettive su temi diversi, si può far risalire a un incontro pubblico del 2014, convocato con un appello alla popolazione locale diffuso mediante manifesti e pieghevoli e intitolato , in lingua greca di Calabria, Ismìa ϳà tÌ zoì( Insieme per la vita). Si leggevano nel testo, tra l’altro, frasi di questo tenore: «… siamo chiamati dalla storia ad adottare stili di vita meno distruttivi, ispirati dall’ amore per i territori che abitiamo e dal senso di responsabilità nei confronti dell’ambiente e del paesaggio …» ; «… bisogna capire come le generazioni precedenti concepivano e sperimentavano rapporti più equilibrati tra produzione e natura, tra gli insediamenti umani e il consumo di suolo, tra le risorse da sfruttare e quelle da rigenerare …».
In seguito il Laboratorio territoriale ha interagito costruttivamente con le amministrazioni comunali consapevoli del baratro in cui si è affacciato l’uomo contemporaneo e disposte a mettere in piedi una corretta politica dei beni culturali e ambientali. Dalla collaborazione con la precedente Giunta di Condofuri, guidata dal sindaco Mafrici, per esempio, è venuto fuori un progetto di rinaturalizzazione della fascia costiera, grazie anche al contributo di professori universitari di Urbanistica e Ingegneria Ambientale, di botanici e naturalisti, che ha ricevuto il sostegno di intellettuali come Carlo Rovelli, Salvatore Settis e Piero Bevilacqua. Con le amministrazioni che invece non si schiodano culturalmente dal modello di sviluppo irresponsabile si è verificata l’impossibilità di qualsiasi collaborazione: l’attuale amministrazione di San Lorenzo del Sindaco Russo, in particolare, ha progettato per la sua costa un suicidio urbanistico fondato sull’alterazione di un habitat protetto ( inserito nella Rete Natura 2000 come Zona Speciale di conservazione) e alle richieste di ridefinizione da noi avanzate ha risposto con un’azione esasperata, assumendo il binomio cura dell’ambiente e del paesaggio = mancato sviluppo come demagogico appello all’epidermica sensibilità delle fasce meno informate della popolazione.
Speriamo, anche se non ne vediamo i segnali, che i giorni della pandemia inducano a una resipiscenza quest’amministrazione e altri simili attori di tutti i livelli della politica, finora guidati da ignoranza e strafottenza ecologica. Il Sindaco Russo si è voluto accodare agli innumerevoli suoi colleghi che, in nome di un’idea malsana di valorizzazione, hanno quasi interamente sfregiato col cemento le coste calabresi, incrementato l’erosione dei litorali e la co2 attraverso il consumo di suolo, compromesso il futuro turistico della nostra regione. Deve sapere però, se sta sperando in un “ ritorno alla normalità” e in un “ Riparti-Calabria” che possano favorire i suoi disegni, che è proprio la “normalità” dissennata praticata fino a ieri la causa di quello che stiamo vivendo in questi giorni: ci hanno spiegato gli scienziati che la distruzione della biodiversità, l’eliminazione degli habitat in cui potevano risiedere in santa pace gli animali selvatici e la proliferazione continua di allevamenti per la produzione di carne stanno da tempo determinando la diffusione dei virus. Da questo momento in poi le politiche di difesa ambientale non potranno essere affidate soltanto a specifici ministeri e assessorati, dovranno piuttosto diventare la bussola di ogni tipo di intervento. Bisognerà vagliare attentamente la sostenibilità di tutte le iniziative sia private che pubbliche e verificare la sussistenza di un approccio veramente ecologico nelle politiche sociali ed economiche, e nella gestione dei servizi e dei beni comuni ( acqua, aria, suolo, rifiuti, risorse, energia, biodiversità, informazione).
La Calabria e il mondo intero non potranno ripartire dalle abitudini autolesioniste contratte in precedenza, dovranno destinare le risorse pubbliche non alla costruzione di tombe d’asfalto lungo la costa ( dalle quali viene banalizzata, irrigidita con gravi conseguenze, costringendo ogni anno il contribuente a pagare le ingenti somme richieste dalle ricostruzioni post mareggiata che vengono così inutilmente sottratte, per cominciare l’elenco, al sistema sanitario) ma al risanamento dell’assetto idro-geologico, al rimboschimento, al restauro degli ecosistemi e al recupero della bellezza dei paesaggi. E ancora: alla ristrutturazione del patrimonio edilizio, in special modo quello costruito nel dopoguerra, così scadente da diventare fonte di impressionante spreco energetico; al sostegno di un’agricoltura di piccoli produttori inclini a rispettare i cicli biochimici della terra evitando l’uso di sostanze di sintesi e disposti a ripopolare le aree interne, nel quadro di una politica di perseguimento della sovranità alimentare dei territori.
Insomma sarà necessario tanto lavoro, come avviene dopo un terremoto distruttivo, ma per concepirlo e impostarlo all’interno di coordinate del tutto nuove e sensate, c’è bisogno di teste pensanti altrettanto capaci di rinnovamento, adatte a reggere l’impatto con le sfide ambientali da affrontare. Altrimenti morto un virus se ne farà un altro, fino all’imminente collasso ambientale definitivo.
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