Siamo alla vigilia di una rimodulazione del lockdown, di una ‘riapertura’ di almeno alcune delle attività vitali del Paese, dell’avvio della c.d. “fase 2” durante la quale saremo chiamati a convivere con la presenza minacciosa del virus e ad essere pronti a tenere sotto controllo il pur sempre possibile ritorno alla chiusura che proprio in questi giorni si cerca di superare.
Le discussioni sono serrate e a pieno appannaggio della scienza e della tecnica e sempre meno della politica che indietreggia e lascia il campo alle etero-decisioni sulle quali poi potranno esser fatte ricadere le responsabilità (non) politiche.
Questa premessa ci serve per rifuggire qualsiasi intento antipolitico, anzi, tutto il contrario. Il Parlamento e non solo il Governo (o il solo Presidente del Consiglio dei ministri), il Consiglio regionale e non solo la Giunta regionale (o il solo/a Presidente della Giunta) devono assumere responsabilmente le proprie decisioni anche sulla base di evidenze scientifiche (quando queste risultino solide) e decidere attraverso atti che oltre la scienza prendano in considerazione una molteplicità, una pluralità di dimensioni valoriali che fanno della decisione adottata una deliberazione, per l’appunto, politica. La politica, comunque, non può tutto, perché esiste il diritto costituzionale e questo (almeno nella sua definizione embrionale) non è che limite al potere.
Con questo breve intervento si vogliono anticipare (e, quindi, stigmatizzare) le ipotesi che via etere si stanno avanzando circa la possibilità – venuto meno il blocco delle attività lavorative e dei limiti alla libertà di circolazione (non solo delle merci) – che alcune regioni del Sud (capitanate da quella campana) possano chiudere i propri porti e i propri confini in un sistema che si è altrove definito di ‘populismo sanitario’. Quasi che l’investitura diretta da parte del corpo elettorale regionale possa permettere non solo ciò che non è previsto, ma addirittura ciò che esplicitamente è vietato.
La dichiarazione dello stato di emergenza nazionale se da una parte ha riconosciuto ‘ampi poteri’ alle Regioni (già con la legge 833/1978) e alla Protezione civile (già con il d.lgs. n. 1/2018: ‘Codice della protezione civile’) per poter emanare ordinanze contingibili ed urgenti in materia di igiene e sanità pubblica, dall’altra non permette di svilire l’assetto costituzionale, che prevede la possibilità di rispondere prontamente ai “casi straordinari di necessità e d’urgenza”, a favore di una non meglio precisata salus rei publicae (come se questa non fosse già garantita nella e dalla Costituzione e fosse quindi qualcosa di diverso) per la quale tutto sarebbe possibile quasi ci trovassimo in uno Stato d’eccezione.
Dunque, possono i Presidenti di Regione chiudere i confini regionali? No. Argomentiamo le ragioni di una risposta non solo negativa ma che può apparire persino perentoria.
Se nella c.d. “fase 1” le misure proporzionalmente giustificabili (rigorose perché volte a limitare i diritti fondamentali delle persone) alla luce della (sola) tutela della salute hanno favorito e legittimato in modo pieno la ‘chiusura’ dell’intero territorio nazionale (anzi forse procedendo con ritardo se si pensa al caso della Val Seriana), nella “fase 2” nel bilanciamento tra diritti e principi il punto di equilibrio deve essere riposizionato diversamente, perché – ferma la premessa di garantire il bene salute di tutti (si conosce il Covid 19 molto più di quanto lo fosse solo due mesi or sono, è stato disposto l’approvvigionamento dei dispositivi di protezione personale, apparecchiature sanitarie, …) –, i beni oggi da far riespandere in quella continua logica di tutele che i costituzionalisti chiamano ‘bilanciamento’ sono quelli dell’impresa, del lavoro, della socialità (in special modo quella infantile finora troppo trascurata), della formazione e, quindi, in una parola della circolazione. E il riconoscimento di questo punto di equilibrio non può che spettare al legislatore, quello statale per le ricadute sui diritti in questione e quindi per le esigenze di uniformità.
Il decreto legge 25 marzo 2020, n. 19 ‘Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19’ stabilisce nel suo articolo 3 ‘Misure urgenti di carattere regionale o infraregionale’ che nelle «more» (quindi prima, sic!) dell’adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri (i noti DPCM, poi prontamente adottati), e «con efficacia limitata fino a tale momento, le regioni, in relazione a specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario verificatesi nel loro territorio o in una parte di esso, possono introdurre misure ulteriormente restrittive», tra quelle disposte a livello nazionale sempre con i DPCM, e di poterlo fare «esclusivamente nell’ambito delle attività di loro competenza e senza incisione delle attività produttive e di quelle di rilevanza strategica per l’economia nazionale».
Il richiamo alla «propria» competenza (ma non solo questo) è dirimente per l’interpretazione qui sostenuta e richiamata nel titolo di questo nostro intervento. La chiusura dei confini regionali non è di competenza delle Regioni, così come disposto dal ‘chiaro’ articolo 120, c. 1, della Costituzione: «La Regione non può […] adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni, né limitare l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale».
I diritti fondamentali non possono trovare una differenziazione alcuna, ed in special modo quello di circolazione in quanto prodromico a molti altri. Limitare in alcune regioni la circolazione dei cittadini (ed anche il lavoro, per effetto conseguente) è competenza statale e tali limiti rientrano per ovvie ragioni nel contenuto essenziale del diritto e la sua disciplina non riconosce unilateralismi territoriali di sorta. La chiusura regionale tout court sarebbe irragionevole perché sproporzionata e inadeguata al fine che intenderebbe perseguire, oltre al fatto di giungere dopo che la materia sarà (come è presumibilmente che avvenga nel giro di pochi giorni) normata dallo Stato, con la pretesa regionale (illegittima) di volersi a questa sovrapporre.
Proporzionata, invece, anche al fine della tutela della salute e alla precauzione della diffusione ‘incontrollata’ dell’epidemia, sarebbe una organizzazione di apertura del lockdown di tipo differenziato ovvero omogeneo (questa sembra la strada che si intraprenderà ad ascoltare la relazione del Presidente del Consiglio – il Prof. Conte – alla Camera); ma qui rientra la competenza della politica e la scienza e il diritto devono fare un passo indietro, nel senso che non possono pretendere di avere l’ultima parola.
A stesso risultato interpretativo (‘la Regione non può chiudere’) si giunge se si prende in considerazione il potere di ordinanza di cui all’articolo 32 della legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale, in quanto la “fase 2” – per come già ricordato – deve essere affrontata con misure proporzionate e adeguate che non possono porsi (diremmo assiologicamente) come contingibili ed urgenti, presupposti questi che valgono per l’appunto per l’adozione delle ordinanze.
Impedire la libera circolazione dei ‘lombardi’, dei ‘veneti’ o dei ‘piemontesi’ (oltre alla conseguenza di riconoscere l’esistenza di “popoli regionali”, la qual cosa non ha nessuna ragione e non solo costituzionale) apre la breccia ad una spirale involutiva qualora in un eventuale prossimo scenario a geografia invertita la libera circolazione dovesse essere impedita ai calabresi, ai siciliani e ai campani verso le regioni del nord; questo, a noi pare, un film già visto e non solo quando si trasmetteva in bianco e nero negli anni del boom economico e della Milano “Capitale morale”.
*Ugo Adamo, Silvio Gambino e Walter Nocito sono costituzionalisti e docenti Unical
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