Supponenza e indifferenza: sono questi i sentimenti con i quali molti calabresi osservano la drammatica situazione dei nostri corregionali bloccati da quasi due mesi nel Nord Italia. C’è un detto del nostro vernacolo che ben si attaglia alla situazione: “l’abuttu ‘un cridi allu dijunu” cioè il sazio non crede a chi è digiuno. “E che sarà mai? Non sono mica costretti a stare in trincea”; “prima non hanno visto l’ora di andarsene dalla Calabria ed ora vorrebbero tornare”; “imparino anche loro a rispettare le regole”. Sono solo alcuni dei dolci pensieri che i calabresi rivolgono ai loro fratelli. In linea con le contumelie che lanciarono a quegli altri che, a più riprese, prima e dopo il 7 marzo, erano già rientrati nei loro luoghi di residenza (come gli permettevano i provvedimenti allora vigenti): “irresponsabili”, “criminali”, “venite a portarci il contagio”. Nella vulgata calabra sarebbero stati proprio loro a diffondere il virus in Calabria, mentre i primi casi li avevamo già avuti per effetto di agenti di commercio e partecipanti a convegni nelle università. In un mondo globalizzato, aperto alla circolazione di beni e persone, infatti, mentre tutti chiudevano le frontiere, il virus dell’influenza e quello della stupidità erano già volati ovunque, divenendo entrambi pandemici. Non abbiamo lasciato in pace neppure i malati nelle loro case. Il disprezzo, l’emarginazione, le delazioni hanno costellato la vita dei paesi e dei quartieri nelle città. Sentimenti e gesti figli della stessa intolleranza, della stessa mancanza di umanità che portò tanti degli attuali moralisti, fustigatori e cacciatori di untori ad invocare l’accoglienza dei migranti. Direi anzi che è proprio questo il dato più sconcertante di tutta la vicenda: fra gli oppositori al rientro dei nostri c’è gran parte di quella “sinistra” – da anni inguaribilmente sinistrata – che inneggiava alle ONG ed al pur valoroso Mimmo Lucano. Proprio per questo, all’indomani dei primi rientri della notte del 7 marzo, lanciai l’ashtag #restiamoumanisempre. Beh, ora che abbiamo appurato che gli untori non ci hanno sterminati, che la nostra sanità ha retto (nonostante tutto), che siamo stati capaci di curare due “settentrionali” dati per spacciati (e per questo mandati quaggiù), che già ci prepariamo ad accogliere i turisti stranieri, non credete che sarebbe ora di prenderci cura degli ultimi nostri prigionieri al Nord e all’estero? E poiché dietro ognuno di quegli uomini e di quelle donne che chiedono di tornare possono esservi storie di solitudine, sofferenza, a volte di indigenza, non credete sia venuto il momento di finirla con i giudizi sommari?
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