Ho conosciuto Mario Pontieri nel lontano 1996 quando, come operatore volontario presso la Biblioteca Comunale di Nocera Terinese, collaborai alla realizzazione dei festeggiamenti per il centenario della nascita del suo defunto genitore, il prof. Ernesto Pontieri, insigne medievista e rettore nelle Università di Napoli ‘Federico II’ (1950-1959) e de L’Aquila (1967-1972). In quell’occasione ci fu semplicemente uno scambio di battute e la risposta ad alcune domande circa la consistenza del patrimonio bibliografico con la promessa che avrebbe omaggiato l’istituzione culturale nocerese di altri volumi appartenuti allo storico.
Mario Pontieri non disattese quella promessa e circa un decennio dopo, di ritorno a Nocera, donò quanto aveva promesso alla Biblioteca accompagnato, se la memoria non mi fa difetto, dalla figlia. Oggi quelle opere, molte delle quali appartenenti alla prestigiosa collana editoriale ‘Piccola Biblioteca Einaudi’, impreziosiscono il patrimonio librario della Biblioteca Comunale, consacrata alla memoria di Ernesto Pontieri, e sono a disposizione di studenti, studiosi e cultori di memorie patrie.
In questa seconda occasione ebbi modo di dialogare amorevolmente col fine intellettuale e soprattutto con l’uomo che non fece nulla per nascondere l’emozione quando rivide, in cima alle scale d’ingresso il mezzo busto raffigurante il padre. E ancor di più quando gli furono mostrate le opere donate alla Biblioteca al momento della sua fondazione: tra cui spiccano il cospicuo studio su Ferrante d’Aragona, quello su Alfonso il Magnanimo, sul Comune de L’Aquila e i numerosi estratti.
Mario Pontieri non era da meno del padre Ernesto, anzi era degno erede della tradizione di famiglia ma, a differenza del genitore che eccelleva negli studi umanistici, preferì percorrere con profitto i sentieri della scienza medica nella quale rifulse per preparazione e metodo. Dopo la prematura morte della madre (appena 20 giorni dopo il parto) a causa di una sepsi puerperale, trascorse parte della sua giovinezza tra Nocera e Catanzaro dove frequentò le prime classi elementari. Soltanto nel 1936, a nove anni, ‘emigrò’ definitivamente a Napoli ricongiungendosi col padre che da poco aveva preso servizio presso la Federico II subentrando al suo maestro, il pugliese Michelangelo Schipa, sulla cattedra di Storia Medioevale e Moderna.
In realtà quel distacco dal giovane Mario si era rivelato necessario affinché Ernesto potesse riuscire a superare lo shock della inaspettata e drammatica morte della moglie, e per portare a termine quel progetto, iniziato all’indomani del conseguimento della licenza liceale, che lo aveva portato da Catanzaro a Napoli e, via via, a Lucera, Palermo, ancora Catanzaro, di nuovo Napoli, Roma, Cagliari e infine, definitivamente, a Napoli.
Fu proprio nel suo periodo di insegnamento al Liceo ‘Galluppi’ di Catanzaro che Ernesto conobbe e si innamorò della giovanissima Maria Mercurio che sposò nel 1926. E dalla cui unione il 3 settembre 1927 nacquero due gemelli Giuseppe e Gregorio, quest’ultimo sopravvisse però soltanto qualche giorno. E «fu per la suddetta serie di tristi eventi, che mio padre decise di appellarmi Mario, in omaggio alla sua fortunata sposa».
In realtà anche prima del 1936 Giuseppe Mario era solito trascorrere alcuni periodi dell’anno col papà nel capoluogo partenopeo. Fu proprio in uno di questi suoi soggiorni che il piccolo si ammalò di difterite: «fui tra la vita e la morte, con conseguente ulteriore travaglio spirituale di mio padre, che dovette certamente sentirsi in un certo senso corresponsabile del rischio che avevo corso», come egli stesso ha raccontato in più di una occasione.
Il periodo della fanciullezza trascorsa a Napoli insieme al padre si rivelò fondamentale per la formazione di Giuseppe Mario. In quegli anni maturò la consapevolezza che la strada da percorrere fosse quella della ricerca scientifica seguendo l’esempio del genitore che si rivelò maestro di metodo, oltre che di vita, amico e confidente. «Dormivamo nella stessa stanza, dove egli aveva fatto collocare una scrivania in modo che, alzandosi quotidianamente alle 6 del mattino, poteva mettersi al lavoro, al quale io lo trovavo intento al mio successivo risveglio». Ernesto Pontieri era per il giovane figlio anche un esempio di dedizione al lavoro: «credo che solo di rado nel corso della sua vita, egli abbia trascorso una giornata priva di quattro-cinque ore di lavoro a tavolino».
D’altronde temprando la sua formazione a una scuola si rigorosa ne aveva certamente notato la «meticolosità quasi puntigliosa nella ricerca» sia quando il padre collazionava pazientemente gli appunti presi nel corso della giornata sia quando gli sottoponeva le pagine più ostiche dei sui lavori «perché gli dicessi se mi riuscivano comprensibili». Senza contare gli allenamenti all’attenzione quando gli assegnava il delicato «compito della prima revisione delle bozze». E, infine, l’abitudine a gestire le complesse situazioni della vita accademica in cui la gran mole del lavoro scientifico si sommava ai numerosi impegni istituzionali e a quelli culturali in tutta Europa.
Giuseppe Mario ricordava con una punta di nostalgia quegli anni perché il padre Ernesto, nonostante i ritmi serrati dell’attività accademica, riusciva a ritagliarsi del tempo da trascorrere col figlio che veniva impiegato per compiere lunghe passeggiate nel cuore antico, ma sempre affascinante, di Napoli: con le sue Chiese e i monumenti che per il futuro scienziato non avevano alcun segreto.
Le vacanze estive e natalizie a si trascorrevano, invece, a Nocera Terinese a casa dei nonni. Una tradizione che Giuseppe Mario non interruppe neanche dopo la morte del padre (1980), tornando puntualmente in Calabria, ogni estate, per salutare la zia e per recarsi a far visita ai genitori e ai noni nella cappella di famiglia.
E poi gli studi: dapprima quelli liceali, poi la laurea in Medicina e Chirurgia, terminati i quali fu avviato ad una brillante carriera accademica. Nel corso della sua lunga attività scientifica ebbe modo di perfezionare le sue ricerche presso importanti istituzioni europee, tra cui l’Istituto Pasteur di Parigi e quello di Igiene dell’Università di Bonn. Senza contare i numerosi incarichi di docenza affidatigli da prestigiose università americane.
Il Mario Pontieri che ho conosciuto, e col quale mi sono soffermato, a chiacchierare era un intellettuale a tutto tondo, raffinato ed elegante, era un conversatore colto, sensibile e instancabile, uno studioso acuto tanto da essere insignito il 16 gennaio 1993, a coronamento della lunga carriera medico-scientifica, della Medaglia d’Oro ai Benemeriti della Scienza e Cultura della Presidenza della Repubblica.
Oltre alla docenza e alla ricerca ha ricoperto numerosi incarichi culturali e nel ventennio 1976-1996 è stato componente del Consiglio Superiore di Sanità coadiuvando l’azione del Legislatore nelle politiche di prevenzione immunologica.
Era, inoltre, socio dell’Accademia Pontaniana di Napoli, socio emerito della Società italiana di Patologia e Medicina traslazionale e autore di numerose pubblicazioni in campo medico di elevato spessore scientifico tra cui il Trattato di Patologia Generale e Fisiopatologia Generale di cui curò le prime cinque edizioni, dopo averlo fondato.
Anche lui, come il padre, fu Maestro esemplare per le numerose generazioni di medici che si sono formate alla sua scuola tanto che alla notizia della sua morte il preside della facoltà di Farmacia e Medicina, Professor Carlo Della Rocca e la Preside della Facoltà di Medicina e Odontoiatria Professoressa Antonella Polimeni, hanno voluto celebrare la passione civile e la figura di scienziato di caratura internazionale, dell’«insigne Maestro» dell’ateneo capitolino, con una dichiarazione congiunta apparsa sul sito web della Facoltà.
Nei giorni 29 – 30 maggio 2014 fu per l’ultima a Nocera. Lo avevamo invitato, congiuntamente alla professoressa Lucia Bonalumi dell’Istituto Comprensivo cittadino, in occasione della celebrazione del convegno finale col quale si chiudeva un progetto didattico sulla figura di Ernesto Pontieri. Ricordo le telefonate preparatorie nelle quali non riusciva a trattenere la gioia per l’invito perché sarebbe ritornato nella ‘sua’ Nocera in cui aveva vissuto i momenti lieti della sua giovinezza e stretto belle amicizie. Di quei giorni, in particolare, ricordo il lucido e puntuale intervento a braccio che tenne dopo il lungo viaggio da Roma in auto, in pratica alla vigilia del suo Ottantasettesimo genetliaco.
Era entusiasta e continuava a ringraziare organizzatori ed ospiti per l’iniziativa e per aver onorato la memoria del grande studioso.
Cconservo tra i ricordi più cari anche le telefonate successive all’evento quando, dovendo allestire il volume degli Atti del Convegno, ci sentivamo per decidere quale materiale iconografico e documentario dovesse essere inserito nella pubblicazione e con quale ordine. E quando gli sottoposi per la revisione la Bibliografia che avevo stilato per la pubblicazione esclamò: «Non pensavo che mio padre avesse scritto così tanto!».
Sempre nell’occasione del Convegno rimase sorpreso e commosso quando, dopo aver celebrato il ricordo del padre, il Sindaco del tempo, Gaspare Rocca, gli conferì la cittadinanza onoraria «in segno di alta considerazione per l’intensa attività scientifica, umana, sociale, morale svolta e che ancora svolge», suggellandone eternamente l’autentica noceresità (Delibera della Giunta Municipale n. 49 del 28 maggio 2014).
«Dopo la morte di mio padre, io sono venuto quasi ogni anno a salutare la sorella Antonietta, residente ad Amantea, da dove mi sono sempre recato al cimitero di Nocera a deporre un fiore sulla sua tomba nella nostra cappella, dove mio padre desiderò essere sepolto. Per motivi di salute miei e di mia moglie da un paio d’anni non mi è stato possibile venire in Calabria, una cara abitudine che spero mi sia concesso di riprendere prima che anch’io trovi definitiva residenza nella suddetta cappella».
*Storico
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