di Pablo Petrasso
REGGIO CALABRIA Quando suo padre Antonino, appuntato dei carabinieri, fu ucciso dalla ‘ndrangheta insieme al collega Vincenzo Garofalo il 18 gennaio 1994, Ivana Fava aveva otto anni. Da più di 26 cerca verità e giustizia per quella morte, diventata – grazie al lavoro investigativo della Procura di Reggio Calabria – tassello centrale del mosaico che ipotizza un patto siglato tra mafia e ‘ndrangheta per colpire lo Stato nei primi anni 90. Con il passare degli anni la bimba privata del padre ha scelto di ripercorrerne le orme ed è diventata un carabiniere. Oggi siede sui banchi delle parti civili nel processo ‘Ndrangheta stragista ma, da qualche mese, si trova anche nell’imbarazzante ruolo di indagata in un altro procedimento avviato dalla Dda reggina.
L’OMESSA DENUNCIA Il nome di Ivana Fava è stato iscritto nel procedimento “Eyphemos” il 16 gennaio. L’ipotesi di reato ipotizzata dalla Dda di Reggio Calabria è omessa denuncia di reato da parte di un pubblico ufficiale. E il fatto a cui si riferisce riguarda una conversazione con Antonino Creazzo, suo marito, indagato per associazione mafiosa. Creazzo avrebbe rivelato alla moglie, all’epoca dei fatti carabiniere, la propria intenzione di «investire esponenti della ‘ndrangheta» affinché intercedessero a favore di Cosimo Petrolino, imprenditore vessato da Francesco Crea. Fava, una volta apprese i fatti, «pur avendo l’obbligo», non avrebbe redatto alcuna annotazione di servizio né avrebbe fatto rapporto.
I fatti – ricostruiti in una dettagliata informativa firmata dal Commissariato di Palmi e dalla Squadra mobile di Reggio Calabria – risalgono all’ottobre 2019. E iniziano quando Crea, simulando l’appartenenza al casato ‘ndranghetista di Rizziconi, minaccia Petrolino, al quale aveva prestato 57mila euro ottenendone in cambio 65mila. Il suo scopo, secondo gli inquirenti, è quello di farsi corrispondere dalla vittima altri 35mila euro. Usa modi spicci: telefonate minatorie, l’evocazione di parentele mafiose, la presenza fisica sotto casa dell’imprenditore vessato. La vittima non denuncia ma decide di rivolgersi ad Antonino Creazzo, «di cui conosceva le amicizie mafiose, perché intervenisse in suo favore per far cessare le pretese estorsive». Creazzo, da parte sua, sa bene a quali porte bussare. È così che, nella storia di usura e minacce, appare Domenico Alvaro, che non ha bisogno di simulare parentele mafiose. È lui a mandare «un’ambasciata mafiosa a Francesco Crea». L’ordine è chiaro: le pretese nei confronti dell’imprenditore devono cessare, altrimenti dovrà vedersela sia con la ‘ndrina degli Alvaro che con i Crea. In questo dramma che va in scena tra sedicenti boss, veri mafiosi e personaggi vicini ai clan, Ivana Fava raccoglie dal consorte elementi che sarebbero dovuti diventare un’annotazione di servizio. Stando all’atto del 16 gennaio scorso, questo non sarebbe avvenuto.
SELFIE CON IL BOSS L’inchiesta Eyphemos ha già creato più di un imbarazzo a Ivana Fava. Prima l’arresto di Nino Creazzo (e di suo fratello Domenico, appena eletto in un consiglio regionale nel quale non si è mai insediato dopo l’inchiesta) con l’accusa di scambio elettorale politico-mafioso, poi un selfie – documentato dalle indagini – assieme a una coppia di amici non proprio qualsiasi, almeno per un carabiniere: Domenico Alvaro, presunto boss di Sinopoli, e sua moglie Grazia. Fava, in una drammatica intervista al Corriere della Sera, si è detta «sconcertata», spiegando che sarebbe rimasta «dalla parte dello Stato» se avesse scoperto che il legame di suo marito con la ‘ndrangheta era più di un’ipotesi. E anche rispetto alla cena con il capoclan si era difesa: «Io sapevo chi era Domenico Alvaro, ma ognuno fa le sue scelte. Quella cena me la sono trovata organizzata, ed è stata motivo di discussione con mio marito. Tante volte mi sono arrabbiata con lui per certe sue frequentazioni, se ci sono le intercettazioni in casa sentiranno anche le mie urla». Anche riguardo all’aiuto offerto all’amico vittima degli usurai, Fava dice di essere stata in disaccordo con il marito. E se è difficile interpretare il tono di una conversazione, diverso è scoprire che manca un rapporto o un’annotazione di servizio per segnalare un presunto reato.
LA CERTIFICAZIONE ANTIMAFIA Altra circostanza imbarazzante è l’interesse di Fava per la causa di un imprenditore che non riesce a ottenere la certificazione antimafia: “colpa” dei suoi precedenti (era stato arrestato per mafia e ritenuto vicino al clan Alvaro-Macrì-Violi), che non fermano Nino Creazzo dal richiedere un intervento della moglie. Quell’azienda può aiutare suo fratello sul piano del consenso, le Regionali si avvicinano e «la dobbiamo difendere con i denti questa cosa». Il voto è dietro l’angolo e un posto in consiglio regionale vale molto. Non si va tanto per il sottile, in questi casi. Figuriamoci se non si chiede aiuto ai familiari. (p.petrasso@corrierecal.it)
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