«Dare le notizie e darle tutte, sempre». Paolo lasciava spesso “foglietti volanti” in giro per la redazione. Erano, di solito, appunti presi prima di registrare “Omissis” – la sua striscia (quasi) quotidiana sul Corriere della Calabria (ci fossero dei fuorionda si potrebbe montare un “blob” divertentissimo) – e spunti di lavoro. Quella frase era segnata a matita sul retro di una delibera regionale. Poco dopo sarebbe andato a un convegno e avrebbe spiegato cosa significava per lui essere un giornalista.
Per «dare le notizie e darle tutte, sempre», aveva lasciato una delle esperienze editoriali più interessanti degli anni Duemila. Calabria Ora era stato una palestra di giornalismo per tanti di noi, era diventato un punto di riferimento per i lettori. È lì che ho conosciuto Paolo Pollichieni. Divenne il direttore nel 2007: fino ad allora, in un anno di vita, il giornale aveva collezionato scoop e aperto dibattiti. La redazione di Cosenza aveva anche ospitato la Digos dopo la pubblicazione della relazione sullo scioglimento dell’Asl di Locri: momento documentato da una bella foto in prima pagina.
Nei tre anni successivi arrivarono ancora scoop e visite legate alla pubblicazione di atti riservati. E poi anche intimidazioni politiche e minacce (alcune non furono soltanto minacce) di querela milionarie. Nessuno avrebbe retto a quella pressione. A Paolo, invece, piaceva l’idea di stare in un fortino. Quando si accorse che qualcuno voleva smontarlo, quel fortino, se ne andò sbattendo la porta. Non è facile parlare di Paolo al passato. Verrebbe voglia di tirare fuori le centinaia di aneddoti sulla Locride al tempo dei sequestri, le storie di un giornalismo di strada che (purtroppo) non si fa più, i racconti di chi la Calabria la conosceva davvero, non per averne letto sui bignamini improvvisati da uno stagista dopo qualche ricerca su Google. Una cosa la raccontava sempre. È la storia di quando, dall’avvocato di un casato di ‘ndrangheta di San Luca, arrivò una lettera di protesta per un mio servizio.
Era diretta soltanto a lui, «perché sappiamo bene chi si nasconde dietro questo affascinante pseudonimo». Grassa risata e poi, serio: «Petrasso, io ho già i miei clienti. Domani pubblichiamo la tua foto e il numero del tesserino e della posizione previdenziale così la prossima volta questi di San Luca sanno che esisti». Lo facemmo davvero (a parte la foto). Gliel’ho sentito raccontare così tante volte che non avrei mai pensato di sentire la mancanza di quella storia. E invece.
Ci chiedono spesso quanto ci manchi Paolo, quanto manchi a chi, assieme a lui, ha percorso un tratto di strada per molti versi irripetibile. Rispondo sempre che manca a tutti, non soltanto a noi. Perché era fragoroso, acuto e mai banale. Manca a chi ne leggeva le cronache. Anche a chi non ne condivideva le opinioni. Potevi essere in disaccordo con i suoi editoriali, non potevi ignorarli. Paolo è stato, per il giornalismo calabrese, una unità di misura. Mi piace pensare che lo sia ancora. E dire, di tanto in tanto, «faccio una cosa alla Pollichieni».
Succedeva quasi ogni sera. Il giornale era praticamente fatto, le pagine si avviavano alla chiusura. Fino all’inevitabile chiamata delle 20,30 (a volte si facevano le 21). «Paolo manda materiale per due pagine, dobbiamo smontare tutto». Me ne sono sempre lamentato ma in realtà mi piaceva. Ci siamo divertiti.
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