Raccontare di Paolo, ricordarne i gesti, riviverne l’impegno professionale e civile, ripercorrere il doloroso momento della malattia, tutto sommato non è difficile, almeno quando si è tra amici. Perché una parola si confonde con l’altra, e la tristezza dell’assenza è portata via dalla condivisione di un ricordo, di un gesto, di un momento. Ed anche il silenzio ha voce e spazio. Almeno in questo caso.
Più difficile scriverne, perché la parola scritta esige disciplina, pretende chiarezza ed io, lo confesso, questa chiarezza che si traduce in testo, quando si tratta di Paolo, sento di non possederla in misura adeguata.
D’altronde, ancora oggi – posto di fronte a vicende e situazioni di vario genere e natura – mi ritrovo molte volte a chiedermi – a chiedergli – quale potrebbe essere il percorso del suo ragionare o l’evolvere possibile di una situazione. E cerco ancora di indovinare quale canzone avrebbe ricordato fra quelle dei suoi cantautori preferiti e quale ironico titolo avrebbe buttato giù per racchiudere in poche parole storie e persone.
Affabulatore Paolo, lo era. E di razza buona. Ma sempre inchiodato a un radicale principio di realtà: “Questo è un fatto e i fatti sono ostinati”, come era solito dire. Per questo, forse, non tollerava chi cercava di nascondere i fatti con le parole, soprattutto quando ampollosamente scritte nei documenti ufficiali. D’altronde, una narrazione non coerente con i fatti è, semplicemente, una narrazione non vera. Una bugia.
E le bugie non riuscivano a resistere alla sua analisi, sostenuta e rafforzata dalla incredibile capacità di connettere fatti e persone, di ricostruire reti di relazione, di riportare in vita vicende dimenticate dai più e di intravvedere connessioni là dove altri vedevano semplici coincidenze. D’altronde, non subisci un attentato – e un attentato di stampo mafioso – e neppure le ritorsioni di una certa politica perché declami aulici anatemi, ma sempre e solo perché riveli verità scomode e relazioni pericolose. Perché porti alla luce del sole ciò che qualcuno vuole che rimanga nell’ombra.
In fondo, era questa la sua cifra giornalistica: prima germogliata nell’impegno che ogni scout assume, di lasciare cioè il mondo un poco migliore di come lo ha trovato; poi maturata in una stagione fra le più pesanti e in una terra fra le più intricate della nostra regione. Locri e la stagione dei sequestri. Con tutto quello che intorno si muoveva.
E da Locri a Reggio, ricordando l’impegno e il sostegno a Italo Falcomatà. Sì, perché giornalismo impegnato non è solo quello che denuncia, ma anche e forse soprattutto quello che costruisce, che ha una idea, che propone un possibile percorso di rinnovamento civile e politico della terra in cui vive. Per questo, il giornalismo di Paolo, anche quando duro, irriverente, aggressivo e corrosivo, non è mai stato inutilmente distruttivo: denunciando suggeriva la via di uscita. Difficile, a volte dura, ma sempre moralmente impegnativa per ciascun lettore, chiamato alla fine a rispondere alla domanda: tu da che parte stai?
Anche per questo, era riconosciuto da tutti come un interlocutore credibile, autorevole, rispettabile. E credibile, autorevole e rispettabile era la sua produzione editoriale. Che dava tanto fastidio ai delinquenti quanto invece era attesa dagli onesti, che nelle parole dei suoi editoriali trovavano la forza per dire a se stessi: si può fare, si può cambiare.
E poi da Reggio a Roma, e da Roma di nuovo in Calabria. Difficile per uno come lui rompere i rapporti con la sua terra, anche quando mille motivi avrebbero suggerito di scegliere la via più comoda di una rapporto a distanza o di privilegiare al meglio i rapporti professionali e personali intessuti nel tempo con la ristretta élite di giornalisti che frequenta veramente le stanze che contano.
Ma Paolo ha sempre avuto a cuore la necessità di contribuire a far nascere una nuova generazioni di giornalisti calabresi. Lo incontrai la prima volta per chiedergli, a nome del rettore Salvatore Venuta, la disponibilità a partecipare alla costruzione di una scuola di giornalismo o almeno di un corso per giornalisti nella Università di Catanzaro. La sua disponibilità per un progetto formativo suggestivo fu immediata, e come al solito ricca di suggerimenti. Forse si trattava allora di un progetto ancora in anticipo sui tempi; eppure stavamo già registrando la testata giornalistica universitaria per consentire la pratica professionale degli allievi. Ma tant’è.
Quello con la Calabria e con Locri è sempre stato un rapporto intenso. Forte. Come il sapore del pane cotto nel forno a legna del quale mi ha fatto dono tante di quelle volte accompagnandolo talvolta con confezioni di struncatura, quella pasta ruvida, quasi di scarto, ma dal sapore forte e vigoroso che rappresenta in qualche modo l’animo di Paolo. Come i frutti del cedro, quelli del suo albero di cui era particolarmente fiero perché intessuti di sole e di mare, quel mare di Locri le cui spiagge infinite amava guardare dalla collina di Moschetta.
E da li guardava lontano. Oltre l’orizzonte. Come lontano guardava nei giorni passati in ospedale a Roma. E qui, però, mi fermo. Perché troppo bruscamente e troppo velocemente le nostre serate romane sono passate dalle passeggiate nei vicoli intorno a Fontana di Trevi ai corridoi del Gemelli. Troppo bruscamente e troppo presto. E Paolo manca, e mi manca; manca la sua intelligenza, la sua penna, la sua ironia, la sua compagnia. E mancano pure le parole per dirlo.
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