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«Covid-19 e scienza ammalata di integralismo»

di Francesco Bevilacqua*

Pubblicato il: 07/05/2020 – 13:06
«Covid-19 e scienza ammalata di integralismo»

Nei due mesi di lockdown, come quasi tutti credo, ho vissuto in un ambiguo stato di sospensione temporale: sorpresa, sconcerto, paura, preoccupazione, commozione, speranza, rassegnazione. Benché avessi letto e scritto molto, negli anni, di ecologia e di distopia (l’utopia negativa), nemmeno io avrei pensato che l’evento catastrofico, sino a quel momento solo immaginato dai narratori distopici, sarebbe giunto così all’improvviso e con effetti tanto devastanti. Al punto da far precipitare in pochi giorni molte certezze apparentemente consolidate di quella che André Malraux chiamava “La condizione umana”.
Fra le certezze cadute, la più eclatante è quella che la scienza possa proteggerci da tutto, possa rimediare a qualunque malefatta dell’uomo e, soprattutto, sia portatrice di verità non sottoponibili a critica. Le scene degli ospedali intasati, dell’andirivieni delle ambulanze, dei medici e degli infermieri disperati perché privi di mezzi e di guide, delle bare accatastate una sull’altra, non potranno mai essere dimenticate. E l’illusione di immortalità che ci veniva venduta a caro prezzo dal senso di protezione dell’urbanesimo e dal vitalismo consumistico ed edonistico dei media avrà serie difficoltà a riaffermarsi.
Intanto, ripensiamo alla morte come all’unico scenario di “certezza” della vita. Nel senso che essa è “il fine” della vita, e non solo “la fine” della vita. Come nel pensiero greco antico, tramandato ancora, nel mondo rurale del Sud Italia, nonostante due millenni di cristianesimo. Poi vogliamo pensare che ci sia qualcosa oltre? O credere alla resurrezione dei corpi? Va benissimo! Ma sembra alquanto lontana l’idea bislacca di qualche miliardario “transumanista” americano che crede che la morte sia solo una malattia e che la “scienza” riuscirà a sconfiggerla. Ed è per questo motivo che – come racconta Mark O’Connell nel suo “Essere una macchina” – quei ricconi d’oltre oceano fanno crioconservare (una specie di surgelamento) i loro corpi o anche solo le teste (costa meno), in attesa della medicina “salva vita” o, quantomeno, del download della loro mente dal cervello in una macchina: per illudersi di continuare a vivere in eterno. Leggere il libro di O’Connell per credere! O digitare su Google il termine “transumanesimo”.
Insomma il nuovo Coronavirus ha dissolto la principale certezza che stava alla base del nostro (dei paesi ricchi) folle stile di vita e della più grave distopia che ne consegue: lo “scientismo”, che è cosa ben diversa dalla scienza. Se la scienza è lo studio dei fenomeni su base razionale ed empirica (ogni tesi viene validata attraverso l’esperimento) ed è quindi, di per sé, soggetta alla fallibilità di cui ha scritto il più grande epistemologo (filosofo della scienza) moderno, Karl Popper, lo scientismo è invece l’idea che la scienza sia una nuova forma di religione, dogmatica ed integralista. Un coetaneo ed amico di Popper, questa volta non un filosofo ma egli stesso uno scienziato, il biologo premio Nobel Konrad Lorenz, ha stigmatizzato lo scientismo in un suo libro ancora attualissimo, dal titolo emblematico “Il declino dell’uomo”, pubblicato nel 1983.
Lorenz ci ricorda che lo scientismo, che può essere chiamato anche “riduzionismo ontologico”, pretende di ridurre l’essere, la realtà solo a ciò che è misurabile, calcolabile, esperibile attraverso il metodo scientifico. Lo scientismo, secondo Lorenz, nega che l’esperienza soggettiva abbia carattere di realtà. Viceversa, proprio la scienza moderna – e in particolare la fisica quantistica – ha dimostrato come anche le funzioni non razionali del nostro apparato cognitivo, compresa la percezione delle forme, possano dare risultati “contraddittori”, negando così che la realtà sia solo quella “predicata” dal riduzionismo ontologico. Per semplificare: l’osservatore, lo sperimentatore influenza il fenomeno osservato! Diceva il premio Nobel per la fisica Werner Heisemberg che le leggi della matematica non sono le leggi della natura ma sono soltanto le leggi di uno dei tanti meccanismi che l’uomo ha per conoscere la natura.
Che voglio dire con tutta questa manfrina sullo scientismo? Una cosa molto semplice: la scienza è un importante mezzo di conoscenza della realtà ma non è l’unico. E, soprattutto, non è un dogma. E pertanto, sostenere, come ha fatto qualcuno durante l’attuale pandemia che “la scienza non è democratica” – come a voler dire che non ammette pareri diversi e discordanti – è profondamente sbagliato. La scienza, invece, è proprio fatta di tesi, che attendono di essere smentite e superate, come insegnava Popper. Sicché non deve meravigliarci se in campo scientifico le tesi dei singoli studiosi e ricercatori sono fra esse contrastanti, né se nella vicenda del Coronavirus vi siano pareri discordi su tutti i fronti: dalla virologia all’epidemiologia, dall’infettivologia alla medicina della cura. Ogni tesi, anche quella apparentemente più banale, se ben motivata, ha “diritto” di essere presa in considerazione (e in questo senso la scienza “è” democratica) e non invece liquidata perché non allineata a quella dominante. Fatte salve, come è ovvio, tutte le necessarie verifiche empiriche. E proprio in questo senso, dunque, è vero esattamente il contrario: la scienza “è” profondamente, intrinsecamente democratica.
Ora, a leggere le diatribe continue fra virologi, epidemiologi, infettivologi, medici delle strutture ospedaliere (per la verità, questi ultimi sono stati vittime delle polemiche benché impegnati sino allo spasmo per curare i malati), e notando come la stampa cosiddetta maistream (ossia allineata) tenda a mettere in cattiva luce le opinioni scientifiche non in linea, perfino quelle di diversi medici, si ha la sensazione che si vogliano imporre come verità tesi che verità non sono o, quantomeno, non lo sono ancora, a scapito di altre alle quali dobbiamo attribuire, quantomeno, pari dignità sino a prova contraria. Perché se c’è una cosa che la pandemia ci ha insegnato è esattamente che la scienza ufficiale, quella dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, dell’Istituto Nazionale di Sanità, delle task force governative, non solo non è stata in grado di prevedere ciò che molti scienziati sul campo (soprattutto virologi) avevano ampiamente previsto, ma non ha neppure apprestato gli strumenti previsti dai piani pandemici internazionali e nazionali (presidi sanitari in primis) e, ancor più, non è stata in grado di offrire alcuna linea guida credibile ai medici impegnati nella lotta alla malattia. È esattamente questo lo scenario che a più di quattro mesi dall’esplosione dell’epidemia, si sta facendo strada. Ciò significa che l’errore, se fatto in buona fede, non equivale ad una ammissione di colpevolezza, ma che, viceversa, esso è la vera chiave di volta per giungere a soluzioni utili per la cura dell’attuale malattia e per la prevenzione di quelle future. E che il voler zittire gli altri in nome di una fraintesa concezione della scienza è, al contrario, esattamente la prova della responsabilità umana – e scientifica – dei disastri già avvenuti e di quelli ancora a venire.
*avvocato, naturalista e scrittore

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