di Francesco Donnici
LAMEZIA TERME Una polemica destinata a durare, scivolata, di fatto, sul piano politico. Un’emorragia che si alimenta nelle pieghe di un cortocircuito tra sistema legislativo e penitenziario.
Può riassumersi così la questione delle scarcerazioni dei boss al 41-bis, oltre che dei detenuti del reparto di alta e massima sicurezza, vicini o contigui ai clan che sta tenendo banco in questo periodo.
In questo periodo, perché a ben vedere, nel resto del tempo, della tragica condizione delle carceri italiane e delle falle dell’ordinamento in materia si parla poco o nulla.
L’elemento di novità è rappresentato da una lista riservata che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – al centro delle cronache ancor più del carcere stesso – avrebbe inviato alla Commissione parlamentare antimafia, nella ricostruzione offerta da Repubblica, solo mercoledì scorso, dopo l’ennesimo sollecito. Una richiesta già pervenuta in prima battuta all’ormai ex capo del Dap, Francesco Basentini, dimessosi proprio a fronte dell’infuriare del dibattito dopo la scarcerazione del camorrista Pasquale Zagaria.
NOMI E NUMERI Sempre secondo la ricostruzione, sarebbero in tutto 376, tra mafiosi e trafficanti di droga, le persone che hanno avuto accesso alle “misure alternative” nell’ultimo mese e mezzo per rischio Covid-19. Solo a Catanzaro sarebbero 41.
Numeri che preoccupano, oltre che per il profilo e la storia criminale dei soggetti, perché vanno ad appesantire il lavoro delle procure, quindi delle forze dell’ordine tenute ai controlli sul territorio per accertare il rispetto delle “nuove” misure imposte.
Nel frattempo, hanno già lasciato il carcere nomi noti agli ambienti di ‘ndrangheta. Tra i primi a far notizia sono stati il boss lametino Vincenzino Iannazzo e quello di Melicucco, Santo Rocco Filippone. Ma scorrendo l’elenco delle scarcerazioni – molte dei quali riguardanti detenuti per ‘ndrangheta con condanne definitive – si può ricostruire la geografia dell’organizzazione criminale sull’intero territorio nazionale. Tra questi c’è Sebastiano Giorgi, classe 67, condannato in via definitiva per traffico di droga ed armi al quale, in 23 maggio scorso, è stato concesso di tornare a San Luca. Il paese della Locride, molto noto alle cronache di ‘ndrangheta, fino alle recenti amministrative commissariato per più di un decennio, ha “riaccolto” in questo periodo anche il classe 49, Francesco Mammoliti noto come “fischiante”, per molti riconosciuto come un’autorità nella zona. Oltre a lui ritroviamo il “Gordo”, Ciccio Romeo, narcotrafficante della ‘ndrangheta sul quale pende una condanna in via definitiva a 17 anni. A Reggio Calabria è invece tornato Demetrio Serraino, classe 47, fratello di “don Ciccio”. Ad Africo, Rocco “un Pilusu” Morabito, fratello del boss Giuseppe. Altro nome è quello di Pasquale Lombardo, di Brancaleone, in attesa di giudizio, è stato arrestato in un’inchiesta sulle nuove leve della mafia calabrese. Nella Piana di Gioia Tauro fanno invece rientro: Domenico Longo (53 anni, considerato il reggente della ‘ndrina di Polistena); Vincenzo Bagalà (in attesa di giudizio); Domenico Pepè (come il precedente, della famiglia dei Piromalli).
Ma sono diversi anche i nomi di boss e affiliati scarcerati anche nel resto della penisola: da Pio Candeloro, 56enne detenuto a Siena ed al centro di diverse inchieste sulla ‘ndrangheta lombarda. Domenico Natale Perre, uno dei sequestratori dell’imprenditrice Alessandra Sgarella, originario di Platì. Tra i “lombardi” ci sono anche: Saverio Catanzariti, Alfonso Rispoli e Leonardo Priolo.
E poi c’è il filone della ‘ndrangheta emiliana dove, tra gli scarcerati illustri spicca il nome di Paolo Pelaggi, della cosca crotonese degli Arena e quello di Marcello Muto, vicino al clan Grande Aracri. Chiudono questo elenco non esaustivo Fabio Costantino, “manager” della famiglia Mancuso di Limbadi e Francesco Ventrici, narcobroker di San Calogero.
SOLO IN 3 ERANO AL 41-BIS ‘Ndrangheta a parte, i nomi che fanno rumore tra le scarcerazioni illustri sono certamente quelli di Pasquale Zagaria, del clan dei Casalesi, che fa parte della ristretta lista degli unici tre mafiosi detenuti al 41-bis che hanno avuto accesso alle “misure alternative” in questo frangente. Non hanno avuto la stessa fortuna invece i boss Raffaele Cutolo della Nuova Camorra Organizzata e Nitto Santapaola, tra i mandanti dell’omicidio del giornalista Pippo Fava. Tra le ultime, in ordine di tempo, ha destato scalpore la scarcerazione di Franco Cataldo, condannato all’ergastolo anche perché riconosciuto come uno dei carcerieri del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di un collaboratore di giustizia, sequestrato, ucciso e sciolto nell’acido.
“GARANTISTI” E NO Proprio di questo caso si era occupato il magistrato “cacciatore di mafiosi” Alfonso Sabella che tempo addietro dichiarò: «E’ stato il mio spartiacque, il mio fallimento, ricordo ancora quella notte di gennaio del 1996. E ancora oggi ho il rimorso per non esser riuscito a salvare la vita al piccolo Di Matteo, pur avendo la piena consapevolezza di aver fatto di tutto per cercare di riportarlo alla madre. Purtroppo non ci siamo riusciti. Ancora oggi mi porto addosso il rimorso, irrazionale, perché Brusca aveva dato ordine di ucciderlo in caso di una sua cattura». Nel commentare questa scarcerazione, proprio Sabella si è detto «rammaricato, quasi rabbrividito», ma a differenza di molti ha preservato la lucidità necessaria per non perdere di vista il tema cruciale: «Non posso parlare del provvedimento del Tribunale di sorveglianza perché non ne conosco le motivazioni. Posso però fin da subito dire che queste scarcerazioni sono anche frutto di alcune norme del codice penale che andrebbero riviste e che portano l’attenzione sul grave problema delle carceri di cui si parla poco e niente. Tutte le persone hanno diritto alle cure in uno Stato come il nostro, quale che sia la colpa di cui si sono macchiate».
Dall’altro lato si fanno sempre più insistenti le voci della politica. La scarcerazione di Catalfo e le atrocità segnate sul suo curriculum criminale sono state il perfetto pretesto per alcune forze politiche tornate alla carica per chiedere la testa del Guardasigilli Alfonso Bonafede. «La misura è colma! Ha lasciato il carcere ed è tornato a casa anche il carceriere del piccolo Giuseppe Di Matteo, tenuto segregato per 26 mesi e poi strangolato e sciolto nell’acido. Un delitto orrendo, voluto dai corleonesi di Totò Riina e dei fratelli Brusca» hanno tuonato Wanda Ferro e gli altri parlamentari di Fratelli d’Italia facenti parte della commissione antimafia che chiedono inoltre al premier Conte di «metterci la faccia» presentandosi in commissione. Proprio i parlamentari della destra calabrese sono stati tra i più attivi sul tema fin dalla prima ora, quando dichiaravano, in ordine alle prime scarcerazioni, che il Governo aveva fatto «tana libera tutti». Ma è davvero così?
SCARCERAZIONI NON DOVUTE AL “CURA ITALIA” La risposta è più complessa di quanto appare. L’articolo 123 del Decreto “Cura Italia” riserva, in virtù dell’emergenza in atto, l’accesso alle “misure alternative” alla detenzione ai detenuti aventi un residuo pena che «non sia superiore a diciotto mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena (dalla data di entrata in vigore del decreto)». Inoltre, da questo elenco di possibilità, vengono espressamente esclusi i condannati per mafia.
Come sottolineato anche da Sabella, il nostro ordinamento già di per sé dà la possibilità di differire l’esecuzione della pena. All’articolo 147, comma 1, numero 2 del codice penale recita: «L’esecuzione di una pena può essere differita se una pena restrittiva della libertà personale deve essere eseguita contro chi si trova in condizioni di grave infermità fisica». Ma non è tutto.
L’atto “incriminato”, in tal senso, potrebbe essere individuato nella circolare del Dap dello scorso 21 Marzo con la quale si chiede di «segnalare all’autorità giudiziaria per eventuali determinazioni di competenza» tutti i detenuti con più di 70 anni, aventi una delle patologie indicate nel documento. Un atto, dirà successivamente il Procuratore Nazionale Antimafia, Cafiero De Raho, del quale nemmeno lui era a conoscenza fino al mese di aprile. Atto che, di fatto, ha permesso di rivalutare i profili e incentivare le istanze anche dei detenuti al 41-bis e di “alta sicurezza 3”, come appunto Zagaria. Proprio questo caso ha fatto molto clamore perché la scarcerazione, nel concreto, viene considerata come una sorta di “Piano B” rispetto al trasferimento in strutture idonee a fornire al detenuto le cure necessarie. Anche per questo motivo, il Tribunale di Sorveglianza di Sassari, per ben due volte ha differito la decisione prima di propendere per la scarcerazione, ricevendo solo dopo la pronuncia, la risposta da parte del funzionario incaricato dal Dap di alcune possibilità legate al trasferimento.
La circolare del 21 marzo si è inserita negli ingranaggi già malfunzionanti dell’ordinamento provocando un gioco al massacro. Nessuno si è ancora assunto la responsabilità per quanto accaduto e la prima testa a rotolare è stata quella del capo del Dap, Francesco Basentini. Per fugare eventuali dubbi, in questi casi è opportuno evocare la legge che spiega come questo ufficio sia stato istituito dall’art. 30 della Legge 395/1990, nell’ambito del Ministero della giustizia abbia tra le sue competenze «la gestione amministrativa del personale e dei beni della amministrazione penitenziaria; svolge i compiti relativi alla esecuzione delle misure cautelari, delle pene e delle misure di sicurezza detentive; svolge i compiti previsti dalle leggi per il trattamento dei detenuti e degli internati». Ma nonostante l’ufficio faccia capo al Ministero della Giustizia, Bonafede declina ogni coinvolgimento. Dopo aver accettato le dimissioni di Basentini, ha nominato il magistrato Dino Petralia, procuratore Capo di Reggio Calabria. Non Nino Di Matteo, scelta che trascina con sé ulteriori strascichi.
LO SCONTRO BONAFEDE-DI MATTEO Facciamo un salto indietro nel tempo. L’8 marzo 2018 Nino Di Matteo, noto per la sua attività come magistrato della trattativa Stato-Mafia, rilascia un’intervista a Sandro Ruotolo per la rubrica ItaliaLeaks su Fanpage dove evidenzia le sue preoccupazioni in merito alle voci legate ad alcune circolari del Dap che potrebbero compromettere la tenuta del 41-bis.
Il 27 giugno 2018, Basentini viene nominato capo del Dap.
Manca il passaggio cruciale venuto alla luce solo due anni dopo, proprio nelle pieghe dell’odierno dibattito sulle scarcerazioni. Nino Di Matteo sostiene di essere stato contatto dal Guardasigilli che gli aveva proposto «l’incarico come capo del Dap o, in alternativa, direttore generale degli affari penali». Continua Di Matteo: «Chiesi 48 ore di tempo di tempo per dare una risposta”, ma “quando ritornai, avendo deciso di accettare la nomina a capo del Dap, il ministro mi disse che ci aveva ripensato e nel frattempo avevano pensato di nominare Basentini”». Ripensamento, nella ricostruzione di Di Matteo, legato alle intercettazioni di alcuni camorristi che in segno di rifiuto di un’eventuale nomina del magistrato al Dap minacciavano «di fare ‘mmuina» all’interno delle carceri. Bonafede, dal canto suo, smentisce fermamente questa ricostruzione: «L’idea trapelata secondo cui mi sarei lasciato condizionare dalle parole pronunciate in carcere da qualche boss mafioso è un’ipotesi tanto infamante quanto infondata e assurda: è sufficiente infatti ricordare che, quando decisi di contattare il Dott. Di Matteo, quelle esternazioni di detenuti mafiosi in carcere erano già presso il mio Ministero da qualche giorno. Non solo. Furono oggetto di specifica conversazione in occasione della prima telefonata con cui, il 18 giugno 2018, proposi al dottor Di Matteo, in piena consapevolezza di ciò che questo rappresentava, di valutare la possibilità di entrare nella squadra che stavo costruendo per il ministero della Giustizia». La verità, come accade spesso, sta nel mezzo. Ma intanto la polemica non si arresta.
LE NUOVE MISURE Nel prendere le mosse proprio dall’ordinanza di scarcerazione di Pasquale Zagaria, va fatta un’importante precisazione. Questi provvedimenti di scarcerazione non sono del tutto irreversibili, ma il Tribunale di sorveglianza può riservarsi di rivalutare la condizione del detenuto – nel caso di Zagaria la valutazione è fissata a distanza di 5 mesi – e, previa disponibilità di una struttura penitenziaria idonea a prestare le dovute cure sanitarie, ritrasferirlo. Il punto nodale della questione corre lungo la necessità di tornare a guardare alle carceri, come già prima di questo dibattito sottolineava il garante dei diritti dei detenuti (qui la notizia). E nel guardare alle carceri, ci si accorge che le carenze strutturali e di personale sono forse la mancanza principale che ha dato origine a questa vicenda. Nel frattempo Bonafede cerca di correre ai ripari, e sempre nella mera ottica di sedare gli animi sottolinea che «verrà adottato un provvedimento per rispedire i mafiosi in carcere».
Invero, fin da prima delle dimissioni di Basentini, il Governo si era mosso per modificare la disciplina legislativa attraverso la quale si è arrivati a questo cortocircuito chiedendo l’approvazione di un ulteriore decreto dove si impone al magistrato di sorveglianza di richiedere un previo parere al Procuratore della Repubblica della città dove è stata emessa la sentenza e, in particolare, per quelli al 41-bis, il Parere della Procura Nazionale Antimafia.
Si rimane in attesa dell’epilogo di questa vicenda generatrice di uno stallo tra politica, legge, Costituzione, diritti. Tutto, purché non si parli delle carceri. (redazione@corrierecal.it)
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