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«Il sangue di Moro e la coscienza inquieta del Paese»

di Ugo Floro

Pubblicato il: 09/05/2020 – 16:19
«Il sangue di Moro e la coscienza inquieta del Paese»

Non avevo nemmeno cinque anni quando si compì la tragedia di Aldo Moro.
Mamma e papà, all’epoca poco più che ventenni, si erano accorti di quanta presa avesse fatto su di me il bombardamento iconico dei tg di stato; per quasi due mesi essi avevano cannoneggiato il tubo catodico con le foto più emblematiche della parabola dello statista democristiano.
«Ugo, fai vedere a nonno l’espressione di Aldo Moro», mi chiedevano i miei, e io eseguivo l’imitazione.
Con serietà, mi verrebbe da dire con mestiere, anche se non ce l’avevo.
Epperò mi riusciva bene: nonno, già sindaco democristiano, mi dicevano che rimanesse colpito da quel bimbo che fotocopiava le rughe e le smorfie dolenti di un viso anziano, scavato dalla storia.
Facevo così: adagiavo, inclinandolo, il capo tra il pollice e l’indice messi a mò di elle, corrucciavo un po’ di muscoli facciali e oscuravo la luce degli occhi.
Nei decenni a venire dimenticai quel “numero” da circo domestico, ma mi sono sempre chiesto perché quella maschera tragica avesse esercitato così tanto potere su di me, condizionando e plasmando il mio sentire, inducendomi sin da adolescente a divorare le lettere dalla prigionia brigatista di quell’uomo, raccolte in una magnifica ricostruzione giornalistica di Giorgio Bocca (“Aldo Moro, una tragedia italiana”), a leggerne la storia politica, a guardarne avidamente film (su tutti “Il caso Moro” con l’impareggiabile Gianmaria Volontè, e “Buongiorno notte” di Marco Bellocchio) ad osservarne accuratamente la mimica facciale dell’ascolto, cosa rara nella retorica politica, che infatti non vidi più.
Il trascorrere del tempo mi ha fatto capire che di quell’uomo mi si impresse subito il messaggio di giustezza che i suoi occhi sapevano recapitare a chi avesse modo di incrociarli anche per pochi istanti, anche in forma mediata attraverso tv e giornali.
Oggi, mi rendo conto che tutte le letture, i film, le testimonianze su Moro divorate bulimicamente sin dalla primissima giovinezza nulla hanno aggiunto alla percezione primigenia dell’uomo.
Amplificata dalla potenza iconica, la sua maschera, buona e insieme tragica, la più greca tra le greche, mi disse tanto da subito.
Mi fece capire che la sua morte fu silenziosamente devastante per la nostra già gracile democrazia, che infatti da allora non si è più ripresa.
Quando sapremo la verità su Moro, quando sapremo chi ne volle davvero l’uccisione, sarà rivolta.
Quanti la nascondono sanno perfettamente che la maschera tragica dello statista democristiano non subisce l’usura dei decenni.
Parla, sferza, incolpa, mai salma fu più viva.
Il suo sangue ancora oggi irrora la coscienza del paese, interrogandola, rendendola inquieta; i suoi occhi continuano a conquistare torme di giovani, i quali attraverso lo studio dello statista, che coincide con lo studio della severa bontà del professore, rinfocolano quello strano sentimento di mancanza nei confronti di una persona che non hanno vissuto, le cui qualità però tornano maledettamente utili ai tempi d’oggi, senza misura.
E infatti, moderazione, sintesi, lungimiranza e politica come missione sono eredità palpitante, motivi di rimpianto collettivo, per questo pericolosi.
Chi nasconde le verità, più che la verità su Moro, sa bene che la salma del giusto è nella carne viva del paese.

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