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«I sessant'anni della sentenza che ha ridato dignità alle donne»

di Anna Pizzimenti

Pubblicato il: 13/05/2020 – 22:37
«I sessant'anni della sentenza che ha ridato dignità alle donne»

Ci sono ricorrenze, che sol perché non istituzionalizzate e coincidenti con il convenzionale “giorno festivo” sul calendario, corrono il rischio di scivolare nelle note a piè di pagina degli annali di storia. Ricorrenze che segnano lo spartiacque fra un prima e un dopo, che costituiscono la “condicio sine qua non” il futuro e gli eventi che si sarebbero sviluppati in seguito, avrebbero percorso vie alternative e, forse anche devianti.
Una di queste date riconduce direttamente al 13 maggio 1960, settant’anni or sono, quando una Corte Costituzionale, composta da soli uomini, censurò, con dichiarazione d’illegittimità, la norma contenuta nell’art. 7 della legge n.1176 del 1919, che “escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici, che implicano l’esercizio di diritti e di potestà politiche”. Formula roboante per definire una questione semplice: nonostante l’apporto dato alla costruzione materiale della Repubblica Italiana; nonostante il significativo contributo in Assemblea Costituente per la stesura della Costituzione repubblicana; nonostante l’art. 3 sul principio di eguaglianza, che di quella stesura avrebbe costituito, nel corso dei decenni, la pietra angolare; nonostante tutto, quella stessa Repubblica aveva mantenuto in vita, per altri quattordici anni, una norma discriminatoria e vetusta che “impediva” alle donne l’accesso a tutti i pubblici uffici, riservando, in via del tutto eccezionale, al legislatore di determinare in quali casi potessero essere ammesse a taluno di essi.
A scatenare questo tsunami, fatto di leggi, decreti e stereotipi, fu una ragazza napoletana di 24 anni, Rosa Oliva, che, da poco laureata in giurisprudenza e programmando il proprio futuro, ebbe l’ardire di ambire ad un concorso in prefettura, per il quale presentò domanda di ammissione, che venne respinta, perché la candidata non aveva i requisiti richiesti, in quanto donna, mentre il concorso era riservato ai soli uomini.
Sconvolta, con la lettera di esclusione in mano e con in testa i precetti appena acquisiti dalle lezioni di diritto costituzionale, si presentò al suo Professore di quella disciplina, che accettò di difenderla e di rappresentarla nel ricorso contro l’esclusione dal concorso da parte del Ministero dell’Interno e nel giudizio di legittimità costituzionale che ne seguì. Quell’Avvocato corrispondeva al nome di Costantino Mortati, illustre e autorevole giurista calabrese, che su quelle norme costituzionali, così palesemente violate, aveva apposto la sua firma e che in quella legge, in modo cristallino, vedeva materializzarsi la palese adulterazione del principio di eguaglianza.
Rosa Oliva vinse quel ricorso, anche se non divenne mai prefetto, ma solo perché, nel frattempo, aveva vinto un concorso all’Intendenza di Finanza di Roma.
Oggi è la Presidente della Rete per la Parità. Dal 2010 Grande Ufficiale della Repubblica Italiana.
Con lei, apripista di un movimento tettonico lento, ma progressivo, vinsero tutte le donne, escluse fino ad allora dalla vita pubblica, come già era stato già all’indomani della Liberazione, quando alle partigiane “fu consigliato” di non sfilare fra le fila dei vincitori. Tutti uomini.
Bisognerà attendere ancora tre anni perché una nuova legge, la n. 66 del 1963, abrogando in toto la n.1176 del 1919 (quella oggetto della pronuncia di incostituzionalità), consenta alle donne l’accesso a tutte le cariche, professioni e uffici, compresa la magistratura.
Molto probabilmente, senza la caparbietà di quella giovane donna (perché l’essere giovane comporta anche una sana dose di cocciutaggine), non si sarebbero cominciate a percepire nel mondo del lavoro quelle “macchie di colore sperdute in un universo maschile tendente al grigio”, come, con suggestiva metafora, Maria Gabriella Luccioli, una delle prime otto magistrate vincitrici del primo concorso aperto alle donne, definisce sé e le colleghe che parteciparono alle prove concorsuali.
Quella sentenza, che oggi compie sessant’anni, va ricordata, celebrata, conosciuta, pur nella sua sinteticità motivazionale, perché non “commemorare” equivale non solo a non ricordare il passato, ma anche a non sapere come programmare e orientarsi nel futuro. Perché la strada da percorrere è ancora tutta in salita se, al tempo del Coronavirus, nessuna donna, fino alla data del 12 maggio 2020, era stata ancora nominata nel Comitato Tecnico Scientifico, che affianca il Governo nella gestione della pandemia, sulla base di una infondata presunzione (rectius, stereotipo) che circoscrive le predette “competenze” ai soli uomini.
“Perché”, citando Emma Bonino, «è vero che una donna per farsi valere deve essere tre volte più brava, tre volte più competente, tre volte più determinata di un uomo…ma, in fondo, non è poi così difficile!».

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