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«In viaggio con Rocco, l’asino filosofo»

di Francesco Bevilacqua*

Pubblicato il: 13/05/2020 – 11:18
«In viaggio con Rocco, l’asino filosofo»

Parto a piedi da casa, sulle colline di Nicastro. A metà di un pomeriggio di maggio, nella seconda fase della pandemia di Covid-19. Salgo attraverso il piccolo bosco di sughere e roverelle, finalmente liberato dal lockdown della prima fase. Vago in mezzo alle ginestre, ai corbezzoli, alle eriche, come fossi in una sorta di giungla mediterranea. Sbuco sulla stradina di Contrada Reillo. Cammino in una luce pura e fulgida, per usare aggettivi cari ad Henry David Thoreau, il cantore della natura selvaggia e del camminare come pratica di vita. Circondato di macchie d’alberi, piccole case di irriducibili come me che hanno scelto la campagna, la semplicità, la solitudine e il silenzio. Quando osservo questa gente, mi sovviene il brano di una lettera di Orazio: “Quel che cerchi è qui, ad Ulubre, se non ti manca la pace dell’animo”. Ulubre era il podere nelle Paludi Pontine dove il grande poeta latino (famoso per il suo “carpe diem”) si ritirò per sfuggire alla vita cittadina.
La fioritura dei ciliegi è all’acme, nella valle del Piazza. Un’altalena su un ciliegio non sfigurerebbe nella Primavera del Botticelli. Iris e margherite macchiano di bianco, lilla e blu il verde dell’erba. Saluto i miei vicini che ormai hanno imparato a riconoscere quel tipo un po’ matto che marcia su e giù da solo senza uno scopo apparente. Lascio l’asfalto e imbocco una sterrata che scende ripidamente fra i boschi, attraversa un torrentello reso furente dalle piogge e risale ad una casa isolata fra querce gigantesche. È il rifugio di Antonio, l’eremita della valle dei ciliegi. Un contadino segaligno, allegro, loquace, che ha perduto la moglie alcuni anni fa. Vive da solo, in mezzo ai campi e agli animali. Siamo diventati amici dacché, la prima volta, passai da qui in cerca di un percorso che mi conducesse a Panetti, piccola frazione semiabbandonata di Platania che, insieme alla Cascata della Tiglia, è divenuta uno dei miei luoghi dell’anima. Sorride, Antonio detto Lavagninu e mi accoglie con la sua consueta frase beneagurante: «Che tu possa camminare così fino a centodieci anni». Sta spalmando con un pennello le zampe e i genitali di Rocco, il suo asino grigio, di una mistura di olio e zolfo, per tenere lontane le mosche.
Proseguo per sentieri, seguito da Rocco senza cavezza. Attraverso altri campi arati di fresco, altri tratti di bosco e la bella sorgiva di Sciabalotto, con uno stagno ovale che pare la pupilla di un occhio. L’occhio del drago, che scruta e ammalia, come intuì Norman Douglas nel suo “Old Calabria”, ripreso da Roberto Calasso in “La follia che viene dalle ninfe”. Sono, questi, luoghi magici, oracolari, sacri agli antichi greci, il cui pensiero ancora sopravvive nelle culture contadine del Sud Italia. Rocco si ferma spesso a mangiare gli apici dei finocchi selvatici e di tante altre essenze di cui conosce perfettamente l’utilità per il suo organismo. E non perché qualcuno glielo abbia insegnato in una facoltà di medicina, ma perché conserva la memoria genetica dei suoi avi. Sbuchiamo sulla stradina asfaltata che da Platania scende a Panetti e raggiungiamo, come un uomo col cane, il borgo. Dove ci accolgono i pochi abitanti.
È trascorsa un’ora e mezza. Il sole è tramontato dietro le montagne. Rientriamo. Ma, quando imbocco il sentiero dell’andata, Rocco non mi segue. Sale, invece, disinvoltamente lungo la stradina asfaltata verso Platania. Attendo pazientemente, richiamandolo con dolcezza. Mi guarda, con le sue lunghe orecchie dritte. Ma capisco che non ha alcuna intenzione di seguirmi. Lo rincorro per un po’, mentre trotta davanti a me. Approfitto di una sua sosta mangereccia per superarlo e sbarragli la strada. Riprovo a parlargli, a spiegargli. Ho avuto per sedici anni uno straordinario rapporto con il mio cane, Elfo dei Boschi, ed ho imparato a rispettare gli animali esattamente come rispetto gli umani, ed a considerarli intelligenti e sensibili quanto noi, anche se diversamente da noi. Mi sento responsabile verso Antonio: se perdessi Rocco? Se occorresse tanto tempo per ritrovarlo? Chiamo col cellulare Antonio per avvertirlo. Mi dice di incitare l’asino con un imperativo «Roccu, ricogliete alla casa!» (Rocco ritorna a casa!). Provo, ma niente. Rocco è lì, fermo, a sfidare la mia autorità e a trovare il momento per forzare il blocco. Richiamo Antonio per pregarlo di raggiungermi con la cavezza, perché il suo Rocco non ne ha proprio voglia di ubbidire. Antonio, riluttante – e forse deluso per la mia scarsezza come conduttore di asini – mi dice che verrà, ma ci vuole del tempo. Sta facendo buio e, benché sia munito di pila frontale, già m’immagino complicazioni d’ogni tipo. Chiamo ancora una volta Antonio, disperato, perché mi dia qualche dritta in più per convincere Rocco a tornare. Improvvisamente, mentre Antonio, con la sua voce forte e roca, mi ripete le frasi magiche da usare col suo asino, ho una illuminazione: metto in viva voce il mio cellulare e lo avvicino all’orecchio di Rocco. L’asino trasale! Volge lo sguardo intorno in cerca di Antonio che non vede ma di cui sente, magicamente, la voce. Mi osserva con i suoi occhi liquidi (mi sento tanto in colpa!), e dopo un paio di imprecazioni del padrone, acconsente a seguirmi, docile come un cane addestrato.
Sul far della sera sono di nuovo alla fattoria di Antonio, che rimprovera Rocco spiegandogli che non deve prendersi certe libertà. E Rocco, di fronte ai rimproveri, fa una cosa che anche il mio cane faceva: si stende per terra, mostra il ventre, in segno di sottomissione.
Poi trotta, un po’ rabbuiato, nella sua stalla. Prima di andar via, sosto da solo sul cancelletto della stalla buia. Mentre ancora mi sforzo di mettere a fuoco l’ombra dell’interno, compare il volto di Rocco, preceduto dal tepore del suo alito. Rimaniamo vicini, occhi negli occhi, per qualche minuto. Sarà la suggestione, ma sento che mi sta parlando: «Buonanotte umano che ami camminare come noi animali, come quei tuoi amici, Rousseau, Thoreau, Hesse, di cui parli sempre. Ci ho provato a farti capire, oggi, senza bisogno di consultare filosofi e narratori, che camminare vuol dire sentirsi liberi: per te come per me. Per questo non volevo tornare alla stalla. Anche chi è costretto a vivere eternamente in prigione dovrà pur sempre raccogliere – fosse anche l’unica – la sua occasione per fuggire, evadere. Ed è questo eterno sogno che dà senso alle nostre vite».
*avvocato, naturalista e scrittore

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