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«Quell’antimeridionalismo che si respira in Italia»

di Anna Pizzimenti*

Pubblicato il: 22/05/2020 – 16:48
«Quell’antimeridionalismo che si respira in Italia»

In un articolo pubblicato su un blog dell’Huffington Post del 17 maggio scorso, curato da Corrado Ocone, leggo che durante la conferenza stampa del presidente del Consiglio a reti unificate, del giorno precedente, «come è tradizione di certa avvocatura meridionale, con giochi dialettici e sotterfugi verbali, Conte è riuscito a non dire nulla di concreto».
L’analisi della frase riportata rende immediatamente cristallino il significato di quelle parole e la situazione a cui esse fanno allusione: un tragicomico horror vacui, infiorettato da bizantinismi, che suscitano più ammirazione per la forma, che persuasione per i contenuti.
Più leggo, più mi convinco che quel sintagma comparativo – «come è tradizione di certa avvocatura meridionale» – sposti il baricentro dal dissenso, nei confronti di un atteggiamento politico, alla matrice geografica “meridionale”, che presuntivamente è all’origine di quella stessa condotta; come dire, in modo più spiazzante e dirompente, «Conte ha parlato del nulla, perché così son soliti fare gli avvocati del meridione».
Insegnava Gorgia di Leontini, sofista e maestro di oratoria fra il IV e V sec. a.C., che la parola è «grande dominatore, che col più piccolo e più invisibile corpo compie le opere più divine»; la comparazione creata da Ocone ne è una conferma.
Non posso, a questo punto, non sentirmi indignata, per tre volte e per tre ragioni parallele: come avvocatessa, come professionista, come meridionale; perché la scelta di quell’attributo non indica null’altro che l’atteggiamento, il modo di pensare, l’abitudine di classificare, che qualificano molto di più chi lo pronuncia, che non colui al quale esso si riferisce. Né si può considerare quel paragone un errore veniale: perché lascia filtrare il messaggio che al Sud non vi siano avvocati dotati di competenze e di capacità tali da elargire contenuti, senza avvitarsi in suggestive, ma vuote, dispute retoriche. Neanche il modello di riferimento fossero l’avvocato Centorbi, che appassionatamente arringa in difesa della bellissima Maléna di Tornatore, o l’avvocato Guttadauro, che spesso si interfaccia con il commissario Montalbano nella Sicilia di Camilleri!
Possono avere inciso i natali pugliesi del Presidente Conte? Forse! Ma da qui ad arrivare a formulare un giudizio di valore su un’intera categoria, e su una parte rilevante della professionalità meridionale, è un azzardo inaccettabile e non veritiero.
Credo che a poco servirebbe elencare le eccelse figure di avvocati meridionali e meridionalisti (questa sì che potrebbe essere un’etichetta rappresentativa!), che hanno onorato non solo il campo giuridico, il foro e la professione, ma anche la letteratura e le arti, per contraddire quel paragone che qui si contesta.
L’elenco sarebbe lungo e non esaustivo. Da Costantino Mortati a Giuseppe Ferrari, da Salvatore Pugliatti a Giorgio La Pira (questi ultimi compagni di scuola di Salvatore Quasimodo e Antonino Giuffrè, componenti, insieme ad altri, della celebre “brigata” di “Vento a Tindari”); da Leonida Repaci a Biagio Camagna a Vincenzo Panuccio, passando per Francesco Messineo, Angelo Falzea, Temistocle Martines, Giovanni Leone e Aldo Moro; Domenico Antonio Cardone e tanti, tanti altri illustri giuristi, che dispiace di non potere qui citare tutti (e dispiace ancor di più che, per quanto è dato sapere, dal recente passato non emergano nomi di donne giuriste).
A parte il momentaneo e fugace moto d’orgoglio, questa elevazione agli onori dell’altare della patria comporterebbe il rischio di alimentare una pericolosa caratteristica della «mentalità molto italiana» (cito ancora, questa volta a ragione, l’articolo di Ocone), ossia quella di sentire un prezioso patrimonio “nazionale” solo gli uomini e le donne che hanno dato un inestimabile contributo in ogni campo del sapere, senza soffermarsi troppo sulle origini “meridionali” di moltissimi di loro. Anzi, non pochi manifesterebbero sorpresa e incredulità, anche fra gli stessi conterranei, allorché quei natali venissero proclamati all’Italia e al mondo.
Fa da contraltare a questo habitus, la pericolosa e surrettizia tendenza ad evidenziare la qualità di meridionali, ogniqualvolta questo attributo si abbina a sostantivi come degrado, ignoranza, povertà, “inferiorità”, ‘ndrangheta, con una metonimia sociale, che finisce per indicare con una parte il tutto.
Si indigna, a ragione, il giornalista Domenico Nunnari, quando dalle colonne de “Il Corriere della Calabria” tuona contro il titolo “Prefetto in terra di ‘ndrangheta” che l’ex prefetto di Reggio Calabria, Michele di Bari, ha dato al suo libro, perché quel titolo «nuoce, soprattutto, ai rappresentanti del Governo che non riescono a dare risposte a cittadini che vorrebbero capire perché sono considerati dallo Stato di serie «inferiore». Si indigna la popolazione civile e si indignano i sindaci calabresi, ricorrendo alla denuncia penale, quando Vittorio Feltri addita i meridionali come «inferiori», cercando poi goffamente di recuperare, senza la benché minima traccia di ravvedimento, spiegando che, dopotutto, «loro sono economicamente inferiori», bluffando sulla consapevolezza del potere persuasivo delle parole e sulla trasparenza della lingua italiana, che sul significato di inferiore non lascia dubbi. “Svantaggiati”, dottor Feltri, questo era il termine appropriato e conforme ai dettami della Costituzione italiana, al principio di eguaglianza sostanziale, alle esigenze di giustizia sociale, che nel principio di non discriminazione trovano la propria copertura assiologica!
Dovremmo indignarci tutti, ogniqualvolta, sulle reti nazionali, cruenti fatti di cronaca sono introdotti da frasi ad effetto come questa: «A Napoli, Palermo, Reggio Calabria una gambizzazione a colpi di arma da fuoco agli arti inferiori non farebbe nemmeno notizia» (dal Tg 3 nazionale delle ore 14,30 del 21 aprile 2020, servizio di Fabrizio Feo), segnalata con disappunto solo (per quanto è dato sapere) da Selvaggia Lucarelli nel suo blog, ma ascoltata da moltissimi, meridionali e non, che hanno stratificato la convinzione che il Sud sia e rimanga sempre «un Paradiso abitato da diavoli».
Si indigna chi scrive, perché non più disposta a sopportare non solo il marchio infamante dell’inferiorità, ma il giogo della rassegnazione e dell’attendismo, forse due dei mali autenticamente meridionali che ci affliggono da decenni, da quando, all’indomani del fallimento della riforma agraria tentata dal Ministro Gullo, svanì il sogno del riscatto dalla povertà per migliaia di contadini e si aprirono, in alternativa, le porte dell’emigrazione, dell’abbandono, dell’oblio del sé.
E allora, caro dottor Ocone, facciamo bene attenzione a non usare con leggerezza l’aggettivo meridionale e, ancor di più, siamo cauti nell’abbinarlo ad avvocato, per evocare un modello di professionista capace solo di tortuoso virtuosismo espressivo. Siamo cauti nell’abbinarlo a qualsiasi sostantivo che rappresenti la caleidoscopica umanità del Sud Italia.
Voglio pensare che non vi sia stato dolo nella sua infelice espressione, né alcuna reminiscenza di lombrosiana memoria. Né ribatterò richiamando le origini territoriali del manzoniano Azzeccagarbugli, che maggior fortuna dei colleghi meridionali ha avuto nella memoria letteraria e linguistica degli Italiani, ma non posso più far finta che nulla sia accaduto e che nulla accada: lascerei pericolosamente aperta la porta al saccheggio della dignità, della genialità, dello straordinario patrimonio di costumi, cultura e saggezza, che come donna del Sud reclamo come doti della Terra in cui sono nata, a cui appartengo e per le quali pretendo rispetto. Da chiunque!
*avvocato

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