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«A corso Buenos Aires comandano i Mancuso»

Dalle carte sugli affari dei clan a Verona spunta la “stele di Rosetta” delle intercettazioni. I legami tra le ‘ndrine raccontati in un lungo viaggio in auto. Il potere del clan di Limbadi in Calab…

Pubblicato il: 05/06/2020 – 7:39
«A corso Buenos Aires comandano i Mancuso»

di Pablo Petrasso
Per gli investigatori della Dda di Venezia, un’intercettazione captata il 22 luglio 2017 e riportata nell’ordinanza dell’operazione “Isola scaligera” è «la “stele di Rosetta” per la decrittazione dei comportamenti» degli ‘ndranghetisti settentrionali, «trapiantati in un territorio diverso da quello di origine, nella misura in cui dimostra una conoscenza precisa e diretta di fatti e persone». Fatti e persone che spaziano tra nuovi e vecchi affari (e inchieste). Tra i rapporti con faccendieri capaci di aprire le porte dei ministeri e gli immancabili addentellati massonici che facilitano il rapporto con la politica. Sullo sfondo di questa lunga chiacchierata si muovono clan storici come i Mancuso, padroni di una parte di Milano, e contatti internazionali capaci di allargare gli orizzonti criminali dei clan.

Parlare da ‘ndranghetisti

Nicola Toffanin è il braccio destro di Totareddu Giardino, il capo del clan crotonese di stanza a Verona finito nel mirino dell’antimafia veneta. Francesco Vallone, invece, è un «soggetto a completa disposizione del potente clan mafioso dei Mancuso di Limbadi, con il quale vantava anche parentele».
Vallone compare nell’indagine “Black Money” della Dda di Catanzaro e «risulta socio in affari di Orazio Spinoso», nipote di ‘Ntoni Mancuso, storico patriarca e boss della cosca.
Toffanin e Vallone parlano da ‘ndranghetisti, secondo gli investigatori. Usano, cioè, il plurale nel raccontare fatti riconducibili all’organizzazione: «abbiamo avuto rapporti…»; «abbiamo fatto un business importante»; «proprio nostro, iddu!». Questione di semantica. Come quando si fa riferimento ai personaggi di spicco del clan: «ma è carcerato zio Luigi adesso?»; «ha tentato di uccidere zi” Romana…»; «ha lui il mandato della famiglia! la dote».
Ma anche di sostanza, come nella circostanza in cui Vallone spiega il motivo del proprio trasferimento a Verona: «Giù non puoi ragionare con loro così! Perché loro oggi investono 100… domani devono essere i 100 suoi, più i 10 di utile».

La scena del duplice omicidio di Alfredo e Giuseppe Grisi

I due parlano di ‘ndrangheta mentre si avvicinano a un ristorante di Zimella, in provincia di Verona, per incontrare personaggi della famiglia dei Multari, «storici alleati del boss Totò Dragone, ucciso dal rivale clan di Nicolino Grande Aracri, nel corso della cruenta faida degli anni 90». L’incontro dà a Toffanin l’occasione di ricordare vecchie storie di ‘ndrangheta, come il duplice omicidio dei fratelli Alfredo e Giuseppe Grisi, indiziati di appartenere alla mafia cutrese e uccisi il 19 gennaio 2011 durante una lite in un negozio a Crotone. La storia si incrocia con quella della famiglia Multari, «in particolare – annotano gli investigatori – dei fratelli Domenico Multari, alias “Gheddafi”, Carmine Multari, e Fortunato Multari, a capo della locale di ‘ndrangheta di Zimella e San Bonifacio». Toffanin avrebbe conosciuto la famiglia Multari grazie al rapporto con Antonio Giardino. Il suo racconto rievoca «la propria esperienza maturata negli ambiti criminali crotonesi anche attraverso le scorribande all’estero con Ottavio Lumastro, quando i due importavano ed esportavano denaro e autovetture di grossa cilindrata («con un Ferrari ho girato la Romania») e corrompevano i funzionari della dogana».

Il faccendiere e il contatto con la Banda della Magliana

Di minuto in minuto, la confidenza tra Vallone e Toffanin aumenta «al punto da parlare apertamente del ruolo assunto da ciascuno di loro nell’organizzazione». È Vallone fare «un riferimento espresso alla famiglia dei Mancuso» quando «confida al suo compagno di viaggio di aver scelto di salire a Verona perché al sud il clan non aveva la lungimiranza di aspettare con pazienza il ritorno degli investimenti fatti, in quanto abituati a volere tutto e subito (con la conseguenza che proprio per questo si trovavano “inguaiati”)». Toffanin, dal canto suo, illustra un progetto del suo clan sui fondi europei «evocando la figura» di un faccendiere che non è indagato nel procedimento e sarebbe il “loro” uomo di riferimento, inserito in “ambienti” romani». Spiega poi che, sempre grazie ai buoni uffici del faccendiere, «presto avrebbe incontrato anche il braccio destro di Enrico “De Pedis”, socio in affari di Massimo Carminati, nonché esponente di spicco della “banda della Magliana”, per pianificare nuovi affari illeciti». Gli investigatori non si fidano del tutto delle parole del braccio destro di Totareddu. Di certo, scrivono, le indagini non hanno consentito di accertare se le sue parole «siano o meno una vanteria». Ma di sicuro lo spessore criminale di Toffanin «merita successivi approfondimenti investigativi».

Enrico De Pedis, boss della Banda della Magliana ucciso 30 anni fa

Questi rapporti che conducono alle stanze dei ministeri, stando alla conversazione intercettata, esisterebbero dal 1992. E sarebbero stati sfruttati anche in occasione del «business importante» che ha visto i clan di San Luca entrare nella “Perego General Construction” a Milano (ve ne abbiamo parlato qui), secondo un modus operandi descritto nell’operazione “Tenacia” della Dda di Milano. Tutti questi affari, secondo Toffanin, hanno il loro epicentro in Calabria, sulla costa tirrenica. L’uomo del clan al ministero, in agosto prende casa a Nocera, e Vallone invita Toffanin a portarlo a Tropea. Magari assieme a sua moglie, che «è dentro la segreteria della Lega», anche se «è comunista», ma solo perché – sempre secondo il racconto dei “compari” – «è dipendente del Senato» e da quella postazione riesce a controllare le mosse della politica.

Affari immobiliari e amici francesi

La “stele di Rosetta” delle intercettazioni porta Vallone e Toffanin a parlare di tutto il sottobosco criminale che hanno frequentato o dicono di aver frequentato. Vallone parte da “Black Money” per distinguere «la posizione del collaboratore di giustizia Rocco Femia da quella “loro”, della cosca Mancuso di Limbadi, indagata per mafia, per il controllo del territorio di Vibo Valentia, per usura, estorsioni, omicidi e “tutto il controllo della parte destra di Milano”». 
Femia avrebbe fatto da tramite per un affare immobiliare in cui un broker napoletano (condannato a 4 anni in primo grado al termine del processo Black Money per reati finanziari ma non per associazione mafiosa e successivamente assolto), «era appoggiato – parole di Vallone – a mio cugino Antonio Maccarone, genere di Pantaleone Mancuso (…) ma sai perché mi hanno portato dentro? Perché io ho fatto fare due centri immobiliari (al broker, ndr)… agli Aquino (si riferisce alla ‘ndrina degli Aquino di Marina di Gioiosa Jonica, ndr), agli Strangio (si riferisce alla ‘ndrina degli Strangio di San Luca, ndr) e a mio cugino, e dicono che l’associazione sovvenziona a me!».
Toffanin capisce che si tratta di Black Money, e nella chiacchierata sulla ‘ndrangheta ricorda: «C’era il francese di 70 anni… quello che aveva le case da gioco a Roma». «Gerard – risponde l’amico – Gerard! Come no! Era a Vibo». Toffanin prosegue: «Viene a Verona tra un po’! È quello che mi dà le macchinette a me. E mi dà la piattaforma su cui lavorare».
Se Flaubert avesse pensato di raccontare la ‘ndrangheta – e non i costumi della provincia francese – attraverso il pettegolezzo tra compari, probabilmente il dialogo captato dall’antimafia veneta sarebbe stata l’architrave del romanzo. Di nome in nome, si arriva a collegare la Calabria alla Francia. Sempre partendo da “Gerard” che abiterebbe vicino a Lione ed «è insieme a Provolino (Maurizio Lattarulo, ndr) che era il braccio destro di De Pedis e tutt’ora reggente per Carminati… è lui che mi è venuto a prendere alla stazione, mi ha portato all’appuntamento e abbiamo mangiato assieme io… lui e questo signore. Ed è lui che ha problemi con Rocco Femia perché a Rocco Femia adesso si sta… collaborando… si sta pentendo e sta parlando di tutti quelli che giocavano al gioco d’azzardo».

«Muove tutto zio Luigi»

Confidenza per confidenza, per i magistrati veneti Vallone dimostra «la sua profonda conoscenza dei fatti» che riguardano il clan Mancuso. Così, quando Toffanin gli chiede «Ma a Milano avevate un professore che ha beni intestati vostri?», lui risponde e arricchisce «di particolari la presenza della ‘ndrangheta di Limbadi nel capoluogo lombardo – ed in particolare nella zona compresa tra Corso Buenos Aires, piazza Piola, via Torino, Stazione Centrale – ove il dominus incontrastato veniva individuato nello “zio” Luigi Mancuso, il più giovane della “dinastia degli 11”». A quei tempi Mancuso era irreperibile (sarà arrestato nei pressi di Nicotera il 12 agosto 2017) da due anni. E Vallone mostra di saperlo. Così come mostra di conoscere le circostanze dell’arresto a Joppolo di Luni Mancuso, l’Ingegnere, e dei fatti che riguardano la “faida” tra i piscopisani e la famiglia Patania di Stefanaconi, vicina al clan di Limbadi.

Luigi Mancuso

«A Milano – dice Vallone – qualsiasi cosa tra Corso Buenos Aires… Piazza Piola-..Via Doria… per arrivare alla stazione centrale… tutto quello che muovi… muove tutto zio Luigi».
Da profondo conoscitore delle cose dei Mancuso («sappi che se tu vai a toccare un Mancuso non resti in piedi, tu ne puoi ammazzare quanti ne vuoi ma i Mancuso sono 400»), Vallone teme il pentimento di Andrea Mantella, «il pentito di Vibo numero uno». Fa bene, come dimostrerà due anni e mezzo più tardi l’operazione “Rinascita Scott” della Dda di Catanzaro.

«Quei due politici sono “fratelli”»


Sul versante crotonese, Toffanin chiarisce il proprio ruolo. Le sue parole, secondo i magistrati, comproverebbero «pacificamente» la vicinanza «al boss emergente Pantaleone Russelli, detto Leo (attualmente detenuto al 41 bis) e al fratello Roberto Russelli, stabilmente resistente a Verona, nonché i rapporti privilegiati di questi con il “mammasantissima” Nicolino Grande Aracri». Il braccio destro di Giardino dice di «aver incontrato Leo Russelli mentre questi era latitante, pochi giorni prima del suo arresto (effettivamente Russelli ha trascorso parte della propria latitanza tra l’Emilia Romagna ed il Veneto) e di avere appreso “di prima mano” le notizie che riguardavano i suoi rapporti con Megna e con Nicolino Grande Aracri». La chiacchierata arriva addirittura a contravvenire alle regole della ‘ndrangheta quando i due svelano il proprio “grado” all’interno dell’associazione.
Per gli investigatori, dopo aver inizialmente sviato il discorso, Toffanin ammette «implicitamente di rivestire un certo ruolo nella gerarchia mafiosa, potendo contare anche sull’appartenenza alla massoneria, privilegio di pochi scelti della ‘ndrangheta» (in un’altra intercettazione dirà di essere «iscritto alla Rosa Croce»). E «dal canto suo, anche Vallone dichiarava di essere un massone, per l’esattezza maestro nella loggia “Mediterranea” del Goi di Crotone, e di avere introdotto in tale loggia» due politici; pertanto, «se Toffanin avesse avuto bisogno di qualcosa, si sarebbero tranquillamente potuti rivolgere ai due amministratori fratelli». Quello che gli inquirenti considerano un uomo dei Mancuso, in effetti, dice di essere «in sonno dal 2010… mi sono messo in sonno quando sono venuto su». Ma, spiega, «io sono grado di gran maestro sono tutti più giovani! lo il sindaco di Isola di Capo Rizzuto… Gianluca Bruno… gli ho fatto il gioco in Comune… se ti servono uomini… il sindaco di Capo Rizzuto l’ho portato io! il battesimo gliel’ho fatto io! … massoneria …a lui e al Presidente Stanislao! Stanislao Zurlo, presidente della Provincia di Crotone». Né Bruno, né Zurlo sono indagati in questo procedimento. Il primo è stato coinvolto nell’operazione Jonny, condotta dalla Dda di Catanzaro contro le cosche di Isola Capo Rizzuto, il secondo è sotto processo a Crotone per voto di scambio. 
Anche nel caso dei presunti legami massonici, si tratta di frasi tutte da riscontrare. Sono confidenze registrate nel corso di un lungo viaggio in auto verso l’Austria. La “stele di Rosetta”, come per la traduzione delle antiche tavole egizie, potrebbe essere soltanto l’inizio di un nuovo percorso investigativo. 
(p.petrasso@corrierecal.it)

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