La giustizia malata fa paura. Ha ragione monsignor Bertolone quando lascia intravedere il rischio che le paure – scatenate dallo stato d’incertezza, dal senso di precarietà e dalla percezione di non sentirsi liberi – ci rendano ancora più vulnerabili, condizionino lo spirito critico e la voglia di emarginare chi usa il contagio emotivo per avvelenare pozzi, innalzare muri e alimentare conflitti.
E la storia è testimone generosa di consensi costruiti sulle paure e sui complotti ma lo è anche l’attualità, fatta di agitatori che sanno governare le inquietudini ma non il Paese, di complottisti che coalizzano gli amici contro i nemici come nella guerra tra toghe attorno agli equilibri del Csm e alle sue nomine, ai suoi indagati, alle fughe di notizie e ad alcuni sconvenienti intrecci con la politica.
La nemesi della storia. La colpa anche qui è di un virus ma informatico, il trojan, come il famoso cavallo omerico che – usato con troppa disinvoltura – è stato in grado di scatenare un terremoto giudiziario proprio nel Palazzo dei Marescialli, di mettere in imbarazzo l’associazionismo dei magistrati e la magistratura tout court, rivelando imprudenti conversazioni private tra magistrati disposti a tanto pur di essere nominati a capo di una Procura.
Il velo del tempio si è squarciato ma – a differenza delle altre volte – le conseguenze hanno il sapore di una resa dei conti senza esclusione di colpi e, fatto ancora più grave, a essere messa in discussione è la credibilità dell’intera magistratura; le opinioni personali espresse da magistrati nelle chat su meriti e demeriti di concorrenti (divisi da logiche correntizie) – riportate dai giornali e inoculate sui social – non lasciano infatti indifferente l’opinione pubblica che si sente legittimata a pensare tutto il male possibile delle toghe e dell’indebita competizione, finalizzata unicamente alla gestione del potere.
Quello che non si osa dire è che la ‘ndrangheta se ne compiace. A chi giova pubblicare intercettazioni parziali, incomplete, trascritte male e interpretate peggio di magistrati calabresi – non coinvolti nell’inchiesta di Perugia sulle nomine del Csm – se non a metterli ancora uno contro l’altro?
A chi giova idolatrare un procuratore, un giorno sì e pure l’altro, se non a chi teme la scure della giustizia?
A chi giova definire “inquietante alfiere” un grande giornalista e quasi gioire della sua morte se non a chi ha bisogno di un momento di vana gloria?
“Nei momenti bui bisogna avere il coraggio di tacere. Senza rancore. E il demonio si scoprirà”. (paola.militano@corrierecal.it)
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