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«I braccianti erano oggetti, non persone, al servizio dei caporali» -VIDEO

Dalle indagini della Guardia di Finanza è partita la «più grande operazione contro il caporalato in provincia di Cosenza». Due organizzazioni gestivano i lavoratori in modo irregolare: dalla frutta…

Pubblicato il: 10/06/2020 – 14:37
«I braccianti erano oggetti, non persone, al servizio dei caporali» -VIDEO

di Michele Presta
COSENZA
«Spersonalizzazione». Un termine ben preciso quello utilizzato dal colonnello Danilo Nastasi. Il capo della Guardia di Finanza provinciale di Cosenza lo evidenzia più volte per far capire quanto le 200 persone vittime dei caporali coinvolti nell’operazione “Demetra” (qui nomi e altri dettagli) venissero considerate semplice merce di scambio da impiegare nei campi della sibaritide. «Penso sia la più grande operazione contro il caporalato realizzata in questo territorio», aggiunge leggendo i numeri. E non ha torto. Sono 14 le persone finite in carcere su disposizione del gip del tribunale di Castrovillari, 38 agli arresti domiciliari e 8 con l’obbligo di presentarsi alla polizia giudiziaria. Queste misure cautelari personali, si aggiungono a quelle reali: 14 aziende sequestrate (2 calabresi il resto lucane) per un valore che raggiunge gli otto milioni di euro. «Parlo di spersonalizzazione perché spesso gli indagati si riferivano alle persone che facevano lavorare nei campi utilizzando dei termini animaleschi», spiega Nastasi. Li chiamavano “scimmie”. Servivano a raccogliere le arance e la paga non superava i 10 euro giornalieri. «Una sola cassetta di agrumi veniva pagata 80 centesimi» aggiunge il luogotente Roberto D’Oria, comandante della tenenza di Montegiordano. È dal comune ionico che sono partite le indagini nel 2017. Una pattuglia delle fiamme gialle ha intercettato un furgone con dentro 7 braccianti sulla strada statale 106. Il fiuto degli investigatori andò oltre il semplice controllo. Iniziarono pedinamenti, intercettazioni, appostamenti e si scoprì un’organizzazione di tutto punto che sfruttava in modo illecito la manodopera e favoriva l’immigrazione clandestina. Uomini e donne pronte ad arrivare negli sterminati campi che si trovano sulla costa ionica cosentina e a lavorare senza contratto e senza nessuna assicurazione. «Ricevevano meno della metà di quanto è stabilito nel contratto collettivo nazionale – spiega il colonnello Danilo Nastasi -. Si trattava di un’attività così fiorente che i caporali avevano anche dei sottoposti». Sono chiamati “sub-caporali” dai finanzieri. «Gli imprenditori che avevano bisogno di manodopera chiedevano ai caporali e loro si attivavano per rifornire di manodopera. In base al tipo di raccolto si sceglieva: uomini per le arance, donne provenienti dall’est per la raccolta delle fragole dove serviva un’abilità maggiore». Il lavoro degli immigrati permetteva alle imprese coinvolte di mettere sul mercato dei prodotti a un costo inferiore rispetto alle aziende concorrenti che operavano regolarmente. «Tra le persone coinvolte c’è anche un dipendente del comune di Rossano che si attivava per avere la documentazione e sottoscrivere poi dei contratti fasulli»


DUE ORGANIZZAZIONI CRIMINALI L’inchiesta dei finanzieri segue due tronconi. Il primo riguarda un’organizzazione formata da 16 caporali e 8 sub-caporali. Gestivano tutto loro: dal reclutamento alla paga. «Spesso venivano visti come dei benefattori – aggiunge il tenente colonnello Valerio Bovenga, comandante del gruppo di Sibari -. Intercettavano le esigenze di chi era in stato di bisogno e ne approfittavano». Gli utilizzatori avevano soltanto da chiedere, al resto ci pensavano i caporali. In questo contesto si inserisce il dipendente del comune di Rossano, reo secondo gli inquirenti di aver favorito l’organizzazione rilasciando documenti di identità e certificati di residenza in favore dei braccianti reclutati per regolarizzare il tutto e consentire una fittizia assunzione. Sì perché alcuni dei migranti che alloggiavano nei C.a.s.i. esibivano il documento “Unilav”. «Era un modo per giustificare la loro assenza dal centro – aggiunge Bovenga – una pezza giustificativa». Il protocollo sottoscritto dall’Inps e dai finanzieri lo scorso anno (qui la notizia) è stato utile per le investigazioni poiché ha permesso di acquisire informazioni e dati in modo più rapido, ma diverse persone coinvolte erano già note alle forze dell’ordine. «Alcuni erano stati fermati per questo tipo di reati prima dell’entrata in vigore della legge sul caporalato – aggiunge il colonnello Nastasi -. Le aziende che sono state sequestrate sono affidate a degli amministratori finanziari che opereranno secondo i termini di legge». Ma non c’è solo caporalato una seconda organizzazione composta da 13 indagati era dedita all’organizzazione di matrimoni falsi. Matrimoni di comodo che avrebbero garantito il diritto di soggiorno a persone residenti in modo irregolare. «Abbiamo individuato 10 matrimoni fasulli – spiega il luogotenente D’Oria -. Sono coinvolti uomini e donne che i caporali conoscevano e che mettevano loro direttamente in contatto. Si conoscevano il giorno stesso del matrimonio e poi ognuno andava per la propria strada». Gli investigatori si sono accorti anche di come tra i caporali fosse prassi scambiarsi favori e cortesie, seppur nessuno ha denunciato violenze fisiche i braccianti che hanno provato a ribellarsi al sistema sono stati allontanati non potendo in questo modo contare più su nessun tipo di reddito. «Massimizzavano al massimo i costi – sostengono i finanzieri -. Gli alloggi erano fatiscenti, i braccianti viaggiavano stipati in mezzi che non potevano contenerne più di 9 e pur di risparmiare per trasportarli usavano carburante destinato ad uso agricolo». Dalle indagini è emerso anche come per le donne usate per raccogliere le fragole, dalla paga venivano sottratte anche le spese per il trasporto. Non è da escludere che le investigazioni proseguiranno considerata la mole di materiale esaminata dai finanzieri durante tutti i mesi di indagine. (m.presta@corrierecal.it)

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