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I "Moti di Reggio Calabria", a cinquant'anni dalla rivolta la ferita è ancora aperta

Dal primo corteo del 14 luglio fino alla guerriglia urbana e l’arrivo dell’esercito. Una battaglia interclassista domata solo dalle promesse: dal Consiglio regionale agli investimenti industriali m…

Pubblicato il: 10/07/2020 – 14:10
I "Moti di Reggio Calabria", a cinquant'anni dalla rivolta la ferita è ancora aperta

REGGIO CALABRIA Cinquant’anni fa la rivolta di Reggio Calabria. Era il 14 luglio 1970 quando si materializzò un evento lacerante, definito rivolta fascista per il ruolo che assunse il Movimento Sociale Italiano. Tutto ebbe inizio, però, il 5 luglio quando l’allora sindaco, Piero Battaglia (Dc), con il suo “Rapporto alla città”, informò i reggini dell’accordo politico-istituzionale fatto a Roma, sull’asse Catanzaro-Cosenza, ai danni di Reggio Calabria. Fu la scintilla di una rivolta – passata alla storia come i “Moti di Reggio Calabria” – che diventerà inarrestabile all’indomani della decisione di convocare a Catanzaro la prima seduta del neo eletto Consiglio regionale della Calabria.
«All’inizio fu solo una protesta – racconta uno dei protagonisti di quei giorni, Fortunato Aloi, ex parlamentare e dirigente del Msi – che non riuscendo a trovare un interlocutore si trasformò presto in rivolta». L’Italia in quei giorni era senza una guida. Dopo soli 131 giorni si era dimesso il III Governo Rumor e si dovette attendere il 6 agosto per avere un nuovo esecutivo, guidato dal dc Emilio Colombo, con Psi, Psdi e Pri in cui ricoprivano importanti ruoli esponenti della politica catanzarese e cosentina.
DAL PRIMO CORTEO ALLA GUERRIGLIA URBANA La mattina del 14 luglio, un corteo spontaneo partì dal quartiere Santa Caterina. Lo guidava proprio Natino Aloi. Da sei che erano all’inizio, divennero trentamila. «Scelsi di difendere la città – spiega oggi Aloi – dal momento che tutti i partiti, nessuno escluso, per motivazioni di ordine regionale e nazionale, anche se il vero potere era concentrato tra Catanzaro e Cosenza, decisero di non pronunciarsi». E così Reggio divenne teatro di una guerriglia urbana senza precedenti. In piazza scesero tutte le categorie professionali. C’erano anche Demetrio Mauro, industriale del caffè, e Amedeo Matacena, armatore privato dei collegamenti navali nello Stretto, e l’ex comandante partigiano Alfredo Perna. Fu anche la rivolta delle donne.
Persino la Curia, con a capo l’Arcivescovo mons. Giovanni Ferro, tra polemiche e feroci attacchi difese la protesta per il capoluogo. Reggio finì allo sbando. Molti quartieri si autoproclamarono indipendenti, come la ‘Repubblica di Sbarre’ e il ‘Gran ducato di Santa Caterina’. La protesta non risparmiò il centro, teatro di roghi, assalti, scontri con la ‘Celere’ che culminarono con l’assedio e l’incendio della Questura e che solo grazie alla lungimiranza del questore Emilio Santillo, non si trasformarono in tragedia. Da Roma, il Governo non accettò mediazioni, rispose con la forza e fece in modo che l’informazione pubblica dei tg nazionali mettesse la sordina alla protesta. Ma la rivolta occupò le prime pagine dei quotidiani nazionali.
LA RIVOLTA DEL POPOLO «Fu una rivolta di popolo, spontanea ed interclassista», dice Aloi che assieme a Ciccio Franco, Renato Meduri e Antonio Dieni, prese in mano la rivolta che diventò la lotta del Msi. Alla fine rimasero i morti, cinque, tre civili e due poliziotti, i tanti feriti, gli arresti e i processi che continuarono per anni e le oscure vicende che fecero della rivolta di Reggio del ’70, una sorta di campo di addestramento di un più ampio progetto della destra eversiva, quella che voleva sovvertire l’ordine democratico, con la presenza a Reggio di Junio Valerio Borghese, Franco Freda, Stefano Delle Chiaie. E i legami con oscuri settori massonici e della ‘ndrangheta in un sodalizio politico-criminale con numerosi attentati, come quello che il 22 luglio 1970 fece deragliare a Gioia Tauro il treno Torino-Reggio Calabria. Un incidente che provocò la morte di sei persone.
L’ESERCITO E IL PACCHETTO COLOMBO Si andò avanti fino al 1971 quando Il Governo decise di chiudere la partita con la forza, inviando a Reggio reparti dell’esercito e decine di carri armati. Arrivarono poi le promesse: il famoso “Pacchetto Colombo” e la concessione a Reggio della sede del Consiglio regionale, gli investimenti della Liquichimica di Saline Joniche, poi operativa solo per pochi mesi, il porto di Gioia Tauro come terminale del V Centro Siderurgico italiano, mai realizzato. «E’ una data della storia – dice ancora Aloi – che ci deve far riflettere e, soprattutto, non ci deve far commettere gli stessi errori. La rivendicazione del capoluogo fu allora solo uno degli aspetti di quei fatti. i “Moti di Reggio Calabria” rappresentano una rivolta morale determinata da profonde motivazioni sociali ed economiche che restano purtroppo valide ancora oggi». (ANSA)

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