di Fabio Papalia
REGGIO CALABRIA Anche dal carcere continuava a impartire ordini e a conversare con la moglie. Grazie a un telefono cellulare introdotto illegalmente in cella e acquistato da una guardia carceraria corrotta. Maurizio Cortese, una delle figure principali dell’operazione Pedigree condotta venerdì dalla Squadra Mobile di Reggio Calabria, oltre che di associazione mafiosa è accusato anche di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio perché avrebbe consegnato la somma di 500 euro a un pubblico ufficiale, un agente di polizia penitenziaria in servizio presso la casa circondariale di Torino, allo stato non ancora identificato, il quale avrebbe accettato il denaro per compiere un atto contrario ai doveri del proprio ufficio, introducendo all’interno della struttura penitenziaria e consegnando al detenuto, in violazione delle norme dell’ordinamento penitenziario, un telefono cellulare con relativa scheda sim.
AGENTE CORROTTO Secondo l’accusa Cortese aveva acquistato dall’agente della polizia penitenziaria un telefono cellulare di marca Hope. Si tratta di uno dei cellulari più piccoli al mondo, più piccolo del palmo di una mano, più piccolo di un accendino, grande quanto un auricolare. Ad esempio il telefono cellulare marca Hope modello M60 è un dual sim gsm con una batteria al litio da 550 milliampereora e con display da 0.4 pollici.
L’accusa si basa sulle stesse dichiarazioni di Cortese il quale durante un’intercettazione ha descritto l’ambiente carcerario come pieno di “guardie corrotte”: «Sai che brutto questo carcere dove sono, bruttissimo (…) pure di guardie corrotte cose con 500 euro mi ha portato il telefono (..) Questo passa e mi fa hai bisogno qualcosa? hai bisogno qualcosa? Di te mi fido che sei calabrese. Gli ho detto io porta un telefono (…) Cinque, sei ore al giorno me li passo al telefono però solo con Stefania hai capito? (…) Ora hanno messo l’email pure».
Gli inquirenti hanno raccolto diversi elementi che dimostrerebbero come Maurizio Cortese, grazie alla corruzione di un agente di polizia penitenziaria e al supporto di Antonino Barbaro, Antonino Filocamo, Salvatore Paolo De Lorenzo, Paolo e Stefania Pitasi, dentro la sua cella avesse a disposizione telefoni cellulari tramite i quali comunicava con la moglie e con i membri della cosca.
LA RICERCA DI SIM A far suonare il campanello d’allarme per gli investigatori sono stati dei messaggi whatsapp nel gennaio 2019 in cui la moglie di Cortese faceva riferimento a una scheda sim intestata a una cittadina extracomunitaria. E’ sorto così il sospetto che marito e moglie riuscissero a intrattenere conversazioni telefoniche nonostante la detenzione dell’uomo. Nei giorni successivi sono state captate le fibrillazioni degli indagati per procurare un’altra sim. I fini illeciti, secondo l’accusa, trasparivano dai timori manifestati dagli stessi soggetti coinvolti, come De Lorenzo, il quale incaricato di acquistare e attivare la scheda in un negozio di telefonia di Reggio Calabria si mostrava preoccupato nello scoprire che il formale intestatario aveva già a suo nome altre schede: «Ma sono pazzi ma mannaia, devono far sì che mi arrestino… mi ha detto sai quante schede ha questa ha dodici schede a nome suo».
Anche il suocero di Cortese, sapendo che la cella del genero a Torino era già stata perquisita dalla polizia penitenziaria, venuta a conoscenza di certe telefonate da lì effettuate, temeva che si potesse risalire alla figlia: «La devono fin… ancora (incompr.) che vadano ancora che arrestino a mia figlia che non… Non capiscono! Non capiscono! Già là gli hanno perquisito pure nella cella, che sapevano che da là dentro partivano telefonate… E lui glielo ha detto a mia figlia. Gli ho detto io a mia figlia non lo tenere nemmeno dentro perché se arrivano… E te lo trovano qua…. Abbiamo finito il film. Non si rendono conto… non si rendono conto».
A quel punto gli investigatori della Mobile hanno acquisito i tabulati del cellulare di Stefania Pitasi, dai quali risultava che aveva avuto contatti con diverse utenze, per lo più intestate a extracomunitari e attivate da poco tempo. Dall’analisi del traffico telefonico sono emersi ricorrenti contatti in cui il numero in uso a Stefania Pitasi agganciava le celle ubicate a Torino, nei pressi di Venaria Reale, compatibili con l’indirizzo della casa circondariale dove il marito era detenuto. L’ipotesi degli inquirenti, che Maurizio Cortese e sua moglie intrattenessero comunicazioni con l’utilizzo di schede “citofono” e tramite un telefono illegalmente introdotto nel carcere, ha trovato riscontro dalle intercettazioni.
LE TELEFONATE DAL CARCERE Gli investigatori infatti il 10 marzo 2019 hanno registrato la prima conversazione telefonica tra i due coniugi che da quel giorno hanno continuato a sentirsi con cadenza quotidiana. Si è capito così che l’utenza in carcere era in uso a Cortese e ad altri detenuti che se la scambiavano insieme al cellulare. Cortese sarebbe riuscito a ottenere il cellulare grazie alla collaborazione di almeno altri due detenuti e la complicità di un agente corrotto della penitenziaria.
«Me lo prendo pure io il telefono», con queste parole Cortese annunciava alla moglie l’intenzione di acquistare un cellulare per un uso “esclusivo”, senza doverlo condividere con altri detenuti. Secondo gli inquirenti dalle sue parole si può comprendere come fosse facile fare “shopping” all’interno della struttura carceraria, il problema vero era nascondere l’apparecchio telefonico: «Ora vediamo ora ci sto vedendo dove lo posso mettere, capito?».
Un servizio degno dei migliori portali di e-commerce. Il 15 marzo 2019 Cortese avrebbe dato mandato alla moglie per l’invio a una certa donna della somma di 250 euro. L’interessata avrebbe telefonato alla Pitasi la stessa sera, per concordare le modalità di versamento: «Lei ti chiama e ti dà la postepay poi io domani o dopodomani ti do la conferma perché sennò devo trovare il posto per bene, capisci sennò non ho cosa fare». Il giorno dopo la moglie riferiva al marito che la donna aveva chiesto 300 euro, e lui illustrava i vantaggi che ne potevano derivare: «La cosa buona sai qual è, che poi finisce il casino, perché poi una volta che ce l’ho io ci sentiamo di sera verso le nove, le otto e mezza… io il posto l’ho fatto, penso che è pure buono… Hai capito? Poi è tutta un’altra cosa… ti posso chiamare quando voglio».
CONDIVIDEVANO CELLE E CELLULARE Da successive intercettazioni emerge che Cortese condivideva il telefono con un altro detenuto: «No la batteria è carica, ne ho due, ho pure quella di scorta… Cosimino si annoia… Cosimo… lui non ne consuma… parla un poco» e ancora in un’altra conversazione spiegava alla moglie che il telefono veniva utilizzato da lui nel pomeriggio e da sera dall’altro detenuto: «Lo apriamo solo quando lo usiamo, il giorno… il pomeriggio lo suo io e la sera magari lo usa Cosimo, bo». Le cose però potevano volgere al peggio da un momento all’altro, il 19 aprile 2019 Cortese riferisce alla moglie di una perquisizione che gli operatori della polizia penitenziaria avevano effettuato nella cella di Cosimo e Domenico, senza però trovare nulla: «a quelli praticamente nella sezione non li hanno portati poi?… Gli hanno smontato tutta la cella, mensole, cose, si sono portati tutto… Speriamo che non se la cantino ora questi…».
Il giorno dopo, conversando sempre sullo stesso argomento, Cortese riferisce alla moglie che i due detenuti erano stati trovati in possesso di un cellulare del tipo iPhone, ovvero uno smartphone.
Cortese: «Quelli sai perché gli hanno pizzicati con l’iphone»
Pitasi: «E te l’ho detto io vedi che tu non mi senti quando ti dico una cosa perché c’è pure il test iphone»
Cortese: «No non era iphone era un altro telefono»
Pitasi: «Se c’è internet ti fregano»
Cortese: «Avevano fatto facebook»
Pitasi: «Pure che non lo fai facebook se ha internet ti fregano perché lo segnala»
Cortese: «Due giorni sono durati»
Pitasi: «Io le so queste cose vedi, lo dicono tutti basta che ti leggi le intercettazioni e lo dicono».
(redazione@corrierecal.it)
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