di Michele Presta
COSENZA Filippo Salsone è un maresciallo della polizia penitenziaria e muore a soli 44 anni crivellato dai colpi d’arma da fuoco. Quando i killer gli spararono da una palazzina in costruzione che affacciava sul luogo del delitto i proiettili colpirono anche il figlio che nonostante le gravi ferite riuscì a sopravvivere. Le immagini di quell’omicidio che si è consumato nella sua casa natia di Brancaleone, in provincia di Reggio Calabria, sono sbiadite dal tempo che è passato. Di quanto accadde il 7 febbraio del 1986 agli atti esiste una sola dichiarazione: quella resa dal collaboratore di giustizia Franco Pino. Le parole messe a verbale negli anni novanta e che uscirono dalla bocca del boss cosentino, noto con il soprannome di “occhi di ghiaccio”, sono finite agli atti del processo di primo grado celebrato nei confronti dello stesso pentito e di Francesco Patitucci imputati del duplice omicidio di Francesco Lenti e Marcello Gigliotti. Anche la loro morte risale al 1986. Sono passati più di 34 anni, ma mentre nel caso del duplice omicidio che si consumò in un vecchio casolare di rende si è arrivati ad una prima verità giudiziaria (in abbreviato sono stati condannati Gianfranco Bruni e Gianfranco Ruà a 30 anni di reclusione) dell’uomo a servizio dello Stato non si conosce né il nome del mandante né il nome dell’esecutore.
IL VERBALE DI FRANCO PINO La Dda di Reggio Calabria sembrerebbe essere intenzionata ad aprire nuovamente il fascicolo d’inchiesta. Altre gole profonde avrebbero potuto parlare del delitto, ma sulla circostanza vige il più ristretto riserbo investigativo. Quanto detto da Franco Pino ai magistrati è stato consegnato ai giudici della Corte d’Assise del tribunale di Cosenza, dall’avvocato Vittorio Colosimo, difensore di fiducia dell’ex boss cosentino.
Il legale sa che ancora una volta il suo assistito può rivestire i panni di imputato e allo stesso tempo testimone d’accusa. Questo perché la scia di sangue del delitto consumatosi nel reggino porta dritto a Cosenza. Salsone era considerato il braccio destro di Sergio Cosmai. Il direttore del carcere di Cosenza ucciso per mano del clan retto da Franchino Perna. La più alta carica del penitenziario cosentino aveva un chiodo fisso: far rispettare le regole tra le mura carcerarie, un obiettivo che non era gradito agli inquilini criminali cosentini. Per farlo si avvaleva della squadra che il maresciallo Filippo Salsone guidava senza alcuna remora. Nonostante il gruppo Perna e il gruppo Pino-Sena furono protagonisti di una sanguinosa guerra di ’ndrangheta nella città di Cosenza, sull’uccisione del direttore del carcere non poterono che convenire considerandola come la scelta migliore. Il braccio armato scelto dal gruppo Perna uccise Cosmai e quello di Pino-Sena «come senso di rivalsa – ha sostenuto l’avvocato Colosimo in udienza – decise di uccidere Salsone. Ma non fu una scelta di Franco Pino. Lui quando avvenne l’omicidio era in carcere. Non sapeva nulla, venne avvertito in un secondo momento da Antonio Sena (ucciso poi nel maggio del 2000 ndr)». L’idea di uccidere il maresciallo della penitenziaria dunque sarebbe potuta partire da Cosenza mentre gli esecutori, potrebbero essere originari di Reggio Calabria. Lo storico difensore di Franco Pino, nel produrre gli atti in udienza, ha anche evidenziato l’immobilismo dell’intero sistema inquirente negli ultimi anni, considerato che del delitto del maresciallo della polizia penitenziaria Franco Pino riferì non appena cominciò il suo percorso da collaboratore di giustizia.
LENTI-GIGLIOTTI: LA PAROLA A GIANFRANCO BRUNI Il 16 settembre, intanto, Gianfranco Bruni sarà collegato in video-conferenza con il tribunale di Cosenza. La corte presieduta dal giudice Giovanni Garofalo ha ammesso l’audizione dell’ergastolano 57enne. Dovevano essere acquisiti i suoi verbali considerato il processo in appello che si sta celebrando a suo carico e a quello di Gianfranco Ruà dopo la condanna di primo grado ma la pandemia ha fatto slittare anche questo calendario. La Dda di Catanzaro, rappresentata in aula da Camillo Falvo, ha palesato la sua contrarietà all’audizione di Bruni. Così invece non è stato per Marcello Manna (difensore di Patitucci) che ha insistito affinché si procedesse nel sentire quello che Gianfranco Bruni ha da dire. «Siamo qui a distanza di 40 anni – ha detto Manna – per questo processo sono stati ascoltati anche collaboratori di giustizia che all’epoca dei fatti erano in fasce. Sentire quello che ha da dire Bruni non potrà far altro che aggiungere nuovi elementi per arrivare alla verità processuale». (m.presta@corrierecal.it)
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