di Paola Militano e Pablo Petrasso
VIBO VALENTIA Il 9 aprile 2019, nella conferenza stampa che racconta i dettagli dell’operazione Rimpiazzo della Dda di Catanzaro, l’allora capo della Squadra mobile di Vibo Valentia, Giorgio Grasso, si incarica di illustrare uno degli esempi della sfrontatezza del clan dei Piscopisani. La cosca emergente ha il proprio feudo a Piscopio e punta a farsi largo tra le ‘ndrine storiche. Anche a costo di entrare in rotta di collisione con il clan Mancuso di Limbadi. Grasso spiega ai giornalisti che uno dei casi riguarda l’imprenditore Domenico Maduli, titolare di Pubbliemme (poi Digiemmecom) ed editore del gruppo LaC. L’investigatore riferisce che Maduli (qui il nostro servizio sui suoi rapporti con Mario Lo Riggio e la “sponsorizzazione” di Pietro Giamborino), non indagato, «aveva come socio tale Nicola Barba (in alto a sinistra nella foto), soggetto sottoposto oggi alla custodia cautelare in carcere». «L’imprenditore Maduli – ha proseguito il capo della Mobile vibonese – era vittima di estorsione dai Mancuso, da Pantaleone “Scarpuni”. Ad un certo punto un esponente dei Piscopisani chiede a Maduli il cambio di un assegno di 10mila euro provento della vendita di un’auto. Maduli rifiuta di cambiare questi soldi ritenendo di essere protetto dai Mancuso». Accade allora che alcuni dei Piscopisani prendono quello che Grasso definisce «il socio di Maduli», cioè Barba, «lo schiaffeggiano e lo convincono a chiedere a Maduli il cambio di questi soldi facendogli credere che fossero per i Mancuso. In realtà – ha aggiunto Grasso – quei soldi sono andati ai Piscopisani. Da quel momento Maduli ha pagato i Piscopisani e dopo i primi 10mila euro ci sono stati anche altri 5mila euro».
Le parole di Grasso, ovviamente, fanno rumore. Il cognome Barba, a Vibo Valentia, evoca lo spettro della ‘ndrangheta. Quale sia il presunto ruolo dell’uomo nella criminalità organizzata del Vibonese lo spiegano ancora gli atti depositati dalla Dda di Catanzaro nell’inchiesta Rinascita Scott. Per gli investigatori, Nicola Barba «riveste un ruolo di vertice in seno alla Società di ‘ndrangheta di Vibo Valentia. È primo cugino di Vincenzo Barba, storico componente di primo ordine della consorteria, nonché fratello di Francesco Barba, entrambi già condannati per aver fatto parte della consorteria “Lo Bianco-Barba”». Barba sarebbe «intraneo al sodalizio mafioso vibonese», vanterebbe «solide “referenze” familiari» e «non disdegna a fornire il suo contributo ad accrescere il prestigio della consorteria».
Andrea Mantella, lo ‘ndranghetista il cui pentimento ha scatenato il panico nei ranghi mafiosi e paramafiosi sull’asse Vibo Valentia-Catanzaro, parla di Nicola Barba in vari interrogatori. Ne illumina – in dichiarazioni sottoposte ai riscontri degli inquirenti – i presunti rapporti con la Vibo che conta e spiega, tra l’altro, che proprio il rapporto con Barba gli avrebbe dato «la possibilità di realizzare, senza l’autorizzazione, una condotta d’acqua che partiva dal rione Carmine fino alla provinciale per Stefanaconi dove avevo la mia azienda».
Gli investigatori, invece, nell’introdurre altre dichiarazioni di Mantella, appuntano che «ben conscio dell’illiceità delle proprie condotte e del pericolo di poter essere soggetto a misure patrimoniali, Barba occultava la propria partecipazione nella società pubblicitaria di Domenico Maduli, ponendola sotto la “protezione” di Pantaleone Mancuso inteso “Luni Scarpuni”, al quale corrispondeva parte dei proventi». È in questo contesto che Barba sarebbe entrato in conflitto con gli esponenti della Società di ‘ndrangheta di Piscopio e della ‘ndrina di Mantella, al punto da venire picchiato da questi ultimi al fine di ottenere l’interruzione dei pagamenti a “Scarpuni” girandoli a proprio favore».
Le parole riferite dal pentito sui rapporti tra Barba e Maduli sono tratte dal verbale illustrativo della collaborazione di Andrea Mantella, datato 21 ottobre 2016. Nella trascrizione Maduli diventa “Maduri”, ma non sembrano possano esserci dubbi sull’identificazione. Ecco il testo.
«Maduri Domenico, quello delle insegne pubblicitarie è nelle mani di Pantaleone Mancuso detto “Scarpuni” anche perché è socio di Nicola Barba, fratello di Franco il costruttore, entrambi gli portavano i soldi a Scarpuni; fino all’ultimo Natale in cui sono stato fuori sicuramente ciò è accaduto perché Maduri lo disse a Scrugli e a Rosario Battaglia mandandoli da Nicola Barba; Scrugli e Rosario Battaglia, quando Nicola Barba gli disse che stava pagando l’estorsione a Scarpuni, lo hanno massacrato di botte e gli hanno preso i soldi; poi è venuto Salvatore Mantella mandato da Franco Barba per chiedermi un consiglio e io gli dissi che i soldi dovevano darli ai Piscopisani e a Scrugli e non più a Scarpuni».
Qualche pagina più avanti, Mantella torna a parlare dell’episodio: «Ho già riferito – questa è la sintesi riportata nei documenti – della Pubbliemme di Domenico Maduli, inizialmente in società occulta con Nicola Braba (anche qui sembra essere un errore di trascrizione per “Barba”, ndr) e che pagava le estorsioni a Pantaleone Mancuso “Scarpuni”; l’ultimo Natale Nicola Barba fu picchiato da Rosario Battaglia e Francesco Scrugli sempre perché portava la mazzetta a Scarpuni; per questo stesso motivo, sempre in quel periodo, Scrugli gli ha fatto sparare alla finestra della sua villetta a Bivona da Antonio Pardea e incendiare la macchina da Mommo Macrì» .
La figura di Nicola Barba, «‘ndranghetista maggiormente dedito all’illecito arricchimento piuttosto che uomo d’azione», viene tratteggiata in una delle tante informative confluite in Rinascita Scott, inchiesta nella quale risulta indagato in relazione a un presunto episodio di usura. Lo racconta il testimone di giustizia Giuseppe Sergio Baroni, «vittima di numerosi episodi usurari patiti a opera di altrettanti componenti della consorteria di ‘ndrangheta di questa città». Baroni illustra agli inquirenti «un episodio in cui Nicola Barba gli aveva prestato denaro “a strozzo”». E, «nel descrivere l’odierno indagato quale persona stabilmente dedita all’attività usuraria, ne riconosceva la sua appartenenza all’associazione mafiosa investigata, precisando di essersi rivolto “ad una persona a me nota per essere solita concedere prestiti usurari, tale Nicola Barba, chiamato “Cola”, appartenente all’omonima famiglia malavitosa».
Questo il curriculum criminale dell’uomo definito «socio» di Domenico Maduli anche da un altro pentito, Raffaele Moscato, in un interrogatorio del 24 aprile 2015. L’episodio è sempre quello legato ai tentativi di “crescita” mafiosa da parte dei Piscopisani. E il narrato è in linea con quanto riferito anche da Mantella. Davanti alla prova di forza della cosca emergente nei confronti dell’attività dell’imprenditore, «si intromettono – sono parole del collaboratore di giustizia – il suo socio Nicola Barba e Michele Palumbo, dicendo che l’attività era sotto il controllo di Luni Mancuso detto “Scarpuni” e che quindi doveva lasciare perdere. Per questa ragione, usata come ulteriore provocazione, Rosario Battaglia, per colpire sia Luni Mancuso detto “Scarpuni” che eliminare Michele Palumbo, decide con Michele Fiorillo, Rosario Fiorillo, Franco D’Ascola, Salvatore Vita, Antonio Tripodi, Salvatore Tripodi di eliminarlo». L’estorsione ai danni di Maduli, dice ancora il pentito, «si è comunque conclusa, nel periodo di Natale 2010 in quanto Maduli ha dato i soldi, ovvero 10mila euro a Nicola Barba che li ha portati al cugino Franco Barba domiciliato in Vibo Valentia, ed io sono andato a prendere i soldi e li ho consegnati a Rosario Battaglia e a Rosario Fiorillo, non sono certo se ci fosse anche quest’ultimo in via Regina Margherita a Piscopio presso la casa di Rosario Battaglia. Successivamente, nell’estate 2011 sono stati pagati altri 5mila euro da Maduli ma non so a chi. Dopo quest’ultimo pagamento, Rosario Fiorillo mi ha riferito che Rosario Battaglia incontrava Mimmo Maduli e la sua fidanzata tale Falduto, figlia di Pippo Falduto, e dopo aver parlato con questi, decideva di “abbonargli” il pagamento delle successive estorsioni». (redazione@corrierecal.it)
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