di Maria Rita Galati
CATANZARO Vedi Marco D’Amore, indiscusso giovane attore di talento, e magari nemmeno sai che ha recitato nella compagnia dei Teatri Uniti di Toni Servillo e si è diplomato alla Scuola d’arte drammatica “Paolo Grassi” di Milano. Di default ti si materializza davanti lo spietato killer al soldo della camorra, in quel fenomeno mediatico (è stato venduto in quasi duecento paesi al mondo) che si chiama “Gomorra”. E dopo pochi minuti che ti fermi ad ascoltarlo, così affabile, simpatico, competente, senza saperlo sei stato testimone oculare di un omicidio senza sangue: Marco ha ucciso Ciro, e ci sono occhi e orecchie solo per D’Amore, che è esattamente l’opposto del Di Marzio al quale presta lo sguardo profondo nella serie, almeno fino alla terza stagione. Succede nella conferenza stampa del mezzogiorno di fuoco all’Hotel Perla de Porto per la presentazione del terzo film in concorso in questa XVII edizione del Magna Graecia Film Festival, di cui D’Amore è regista, “L’Immortale”.
IN CONCORSO OGGI ‘L’IMMORTALE’ Incalzato dalle domande del critico e giornalista Antonio Capellupo, Marco ha la dolce ossessione e la naturale predisposizione al racconto. Spiega nel dettaglio dell’intenzione degli sceneggiatori (con lui Leonardo Fasoli, Maddalena Ravagli, Francesco Ghiaccio e Giulia Forgioni) di sperimentare un linguaggio e creare un inedito crossover tra cinema e televisione, un ponte, un anello di congiunzione narrativo “Gomorra” e “L’immortale” che è tutt’altro che un episodio della serie, né uno spin-off senz’anima, ma «un film che ha una sua indipendenza. La sfida – spiega D’Amore – era portare in sala tutti quelli che per varie ragioni Gomorra non l’hanno mai visto. Il rischio, quindi, è stato quello di dover portare la gente dal salotto alla sala cinematografica, per questo siamo partiti bassi con il film, ma possiamo dire di aver vinto la scommessa, ero convinto che questo salto sarebbe stato possibile e così è stato. ‘L’Immortale’ – ha proseguito l’attore e regista nato a Caserta ma per il quale essere napotelano è uno “state of mind” – è un progetto unico sul piano produttivo, un racconto cinematografico, e infatti ha attirato anche tanti che non avevano visto ‘Gomorra’. Quanto alla critica di aver fatto un film commerciale, rispondo: e quindi? Dov’è il problema?».
Quella raccontata ne “L’Immortale” è una storia che partendo dalla povertà della Napoli scossa dalla guerra del contrabbando dei primi anni ’80 arriva fino alle nuove rotte della criminalità e del narcotraffico emigrate nell’Est Europa. In mezzo a questo c’è l’infanzia del protagonista, vista con gli occhi del piccolo Giuseppe Aiello, scelto tra oltre 350 ragazzini.
EDUCAZIONE SENTIMENTALE DI UN CRIMINALE «Il paragone tra la serie e il film non regge. La serie ha una sua scrittura e non considera la possibilità di andare indietro come abbiamo fatto noi, anche sul piano tecnologico abbiamo usato un formato cinematografico sperimentale di cui nessuno si è accorto. Poi, il risultato è lasciato al pubblico». Quello che Marco racconta di Ciro ne “L’Immortale” è quasi l’evolversi dell’educazione sentimentale di un criminale, «ma senza indulgenze né compiacimenti. Prima di arrivare alla stesura definitiva abbiamo scritto quattro soggetti che alla fine sono rimasti nel cassetto. Ciro aveva infinite possibilità di sviluppo. È nato al principio di novembre del 1980. Quando il terremoto devasta l’Irpinia».
«La Lettonia poi – ha spiegato ancora – è un luogo non solo fisico ma emotivo, freddo, orizzontale, a significare il bilancio di un uomo che fa i conti con i propri fallimenti, mentre il ruolo di Giuseppe voleva trasmettere anche una positività. Purtroppo, lo dico non con rabbia ma con rammarico, il cinema italiano si è mostrato miope nel non riconoscere la bravura di questo ragazzino: veniva da Scampia, quindi è cresciuto in un contesto molto violento, ma lui è arrivato con grande dignità, mi ha detto ‘io sono buono’, aveva bisogno di comunicare il suo candore». Inevitabile la riflessione su quanto D’Amore ci sia in Ciro Di Marzio e viceversa: «Io ho avuto possibilità che Ciro non ha avuto, in generale – ha detto D’Amore – io ero completamente distante da quel tipo di personaggio, facevo teatro poi sono stato ‘tirato dentro’ da Sollima. Ma alla fine c’è sempre uno scambio tra attore e personaggio: io ho messo dentro il personaggio quell’umanità che crea il conflitto e forse per questo ha suscitato tanto interesse. Perché se non c’è conflitto non c’è narrazione».
IERI LA SERATA DI RONN MOSS Marco D’Amore è stato anche protagonista della serata del MGFF di ieri, quando è stato proiettato il film in concorso “Dolcissime” di cui è sceneggiatore assieme al regista Francesco Ghiaccio. Il film racconta la storia di tre amiche inseparabili che fanno i conti ogni giorno con gli odiati chili di troppo. Una storia tutta d’un fiato sulla voglia di riscatto e sull’incredibile forza dell’amicizia, oltre gli inciampi, gli imprevisti e qualsiasi diversità.
Ma la serata, condotta da Carolina Di Domenico, alla presenza del direttore artistico del Magna Graecia Film Festival Gianvito Casadonte, era stata segnata dalla presenza di Ronn Moss: dopo la master classa al Complesso Monumentale San Giovanni, l’attore statunitense ha ricevuto la prestigiosa Colonna d’Oro alla carriera, realizzata dal maestro orafo Michele Affidato, consegnata da Calogero Di Carlo, fondatore e direttore di Unipegaso, sponsor del festival. Red carpet anche per Vinicio Marchioni, nel cast di ‘Dolcissime’. L’attore, vincitore nella precedente edizione del Mgff del premio ‘Petitto’, nel corso del suo intervento ha focalizzato l’attenzione sull’importanza dell’accettazione della diversità e sul rapporto genitori-figli, due temi che ‘Dolcissime’ affronta con garbo ed intelligenza, e che hanno stimolato un dibattito ricco di emozioni e riflessioni
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