di Fabio Papalia
REGGIO CALABRIA L’omicidio dell’ex collaboratore di giustizia Antonio Gullì sarebbe stato commesso da Franco Giordano, il quale sarebbe stato vittima a sua volta di un tentato omicidio da parte dei parenti di Gullì che volevano vendicare l’uccisione dell’ex pentito. Tra le intercettazioni eseguite nell’ambito dell’operazione Pedigree c’è una conversazione, dell’11 giugno 2019 tra Paolo Pitasi e G.C., che secondo gli inquirenti fornirebbe precisi dettagli sull’omicidio dell’ex collaboratore di giustizia Antonio Gullì, assassinato all’interno di una sala giochi nel quartiere Modena di Reggio Calabria la sera del 4 maggio 2008, omicidio scaturito per contrasti interni alla consorteria di ‘ndrangheta Rosmini-Serraino, operante nella zona sud della città. Una conversazione che fornisce qualche dettaglio anche sul tentato omicidio subito da Francesco Giordano il 14 ottobre 2008. I due episodi di sangue, secondo il racconto di Pitasi, sarebbero collegati.
Paolo Pitasi (don Paolo), che era stato uno dei principali collaboratori di Francesco Serraino, noto come il “boss della montagna“, assassinato durante la seconda guerra di ‘ndrangheta, è suocero di Maurizio Cortese, accusato quale vertice della cosca Serraino.
Secondo gli inquirenti la conversazione è utile perché emergerebbe l’inserimento di Pitasi nella ‘ndrangheta, con ruoli apicali viste le profonde conoscenze delle dinamiche della criminalità mafiosa e dei rapporti tra le ‘ndrine. L’intercettazione, però, può aiutare anche a far luce su un vecchio delitto finora irrisolto che attende giustizia da 12 anni.
I due si soffermano a parlare di “Franco”, che secondo gli inquirenti è verosimilmente identificabile in Francesco Giordano, arrestato di recente, appena due mesi prima dell’operazione Pedigree, nell’ambito dell’operazione Cemetery Boss, con l’accusa di essere il referente imprenditoriale della cosca Rosmini, tanto per tutti i lavori edili da realizzarsi sul territorio di influenza e in particolare per quelli da eseguirsi nell’ambito del plesso cimiteriale di Modena. Egli è ritenuto infatti il vertice dei Rosmini nel quartiere Modena.
Gli inquirenti ritengono che il “Franco” di cui parlano Pitasi e il suo interlocutore sia proprio Giordano dal fatto che è stato condannato il 28 giugno 2003 per associazione di stampo mafioso, per essere stato appartenente alla consorteria di ndrangheta Rosmini/Serraino e per essere sopravvissuto ad un tentato omicidio avvenuto nella mattinata del 14 ottobre 2008. Seguendo la ricostruzione dei fatti illustrata da Pitasi, l’autore dell’omicidio di Antonio Gullì sarebbe Francesco Giordano (Franco), inserito all’interno della famiglia di ‘ndrangheta dei Rosmini. Nel periodo precedente all’omicidio, sempre da quanto emerge dalla conversazione, Gullì era entrato in contrasto con la famiglia Rosmini, e in particolare con Francesco Giordano, tanto che questi – che nella sua zona di competenza godeva di ampio potere – avrebbe deciso da solo, e senza ulteriori autorizzazioni da parte di altri esponenti della ‘ndrangheta, di eliminarlo. Per questo motivo, sempre secondo la ricostruzione di Pitasi, Giordano avrebbe subito per vendetta un agguato mafioso ad opera dei parenti dell’ex pentito, riuscendo a salvarsi miracolosamente.
L’INTERCETTAZIONE Quando i due, a bordo della Fiat Grande Punto in uso a Pitasi, giungono all’altezza di via Modena, nei pressi di un negozio di ortorfrutta, G.C. chiede a Pitasi se tale Pino “il carrettiere” avesse chiuso la sua attività. Nel prosieguo del discorso, Pitasi aggiunge che Pino “il carrettiere” era sempre insieme a Franco, dandogli un appellativo che denota poca considerazione: “Ma? Appresso a questo animale di Franco”.
Rispondendo a una domanda dell’interlocutore, che chiedeva di cosa si stesse occupando adesso Franco, Pitasi risponde che da tanto tempo non lo vede, aggiungendo una frase che secondo gli inquirenti si riferisce al tentato omicidio ai danni di Francesco Giordano, che nel 2008 riuscì miracolosamente a sfuggire a un agguato di mafia, “che ringrazi a Dio gli è andata buona per davvero”. L’interlocutore concorda con Pitasi affermando che “gli è andata buona” e chiede se la vicenda di Giordano fosse sorta per motivi legati a una donna “ma allora per la femmina, dice si dice” ma Pitasi afferma che l’episodio era riconducibile all’omicidio di un collaboratore di giustizia: “Per il fatto che hanno ammazzato allora il pentito”.
Pitasi racconta che in occasione del tentato omicidio Franco era stato avvisato da un soggetto indicato con il nome “Mico” della minacciosa presenza di una macchina, con a bordo i parenti del collaboratore di giustizia, che si soffermava nei luoghi frequentati da Franco: “il bello che gliel’ha detto Mico: vedi che c’è una macchina ferma è da più di una mattina e sono i parenti di questo”, ma Franco non aveva voluto ascoltare chi lo stava mettendo in guardia, “ah…devono andare ad ammazzarsi… Ti hanno ammazzato a te?”.
L’interlocutore di Pitasi, incuriosito dal racconto, chiede se il collaboratore di giustizia avesse riferito agli inquirenti anche fatti su Franco nel corso del processo: “Ma perché lo ha nominato a lui allora pure?”. Proprio in quel momento G.C. interrompe la conversazione e saluta una persona “Ciao Franco” aggiungendo subito dopo “minchia lo avete nominato”, con Pitasi che concorda “Ora lo avete nominato ora lo abbiamo nominato”.
G.C., quindi, torna all’argomento della discussione e chiede apertamente se Franco fosse stato mandato per uccidere il collaboratore di giustizia o se lo avesse fatto di sua iniziativa: “Mannaia…e che era…dico allora lo hanno mandato o ha fatto una cosa sua per poterlo macinare… Dico per ammazzarlo”.
Paolo Pitasi svela che il movente per cui Franco si sarebbe determinato a uccidere il pentito era legato al fatto che questi era molto presente sul territorio, di fatto controllandolo come se quella zona gli fosse stata assegnata, suscitando molto fastidio in Franco: “Gli bruciava che ce l’aveva sempre qua in mezzo, lui qua sembrava che era il suo”. G.C. torna a chiedere se il collaboratore avesse parlato ai magistrati anche di Franco: “Ma lui non lo ha nominato a lui?…Nino lo ha nominato” ed al riguardo, Pitasi risponde che il collaboratore di giustizia, con le sue dichiarazioni aveva riferito su diversi soggetti, suscitando molte preoccupazioni tra le persone che erano state vicino al pentito: “Lui ha nominato altri eccome, ne ha nominato…diversi, che non era bisogno, chi cazzo ti chiama, bastardo, quanto porcata hai fatto piedi, piedi”.
Ancora G.C. domanda a Pitasi se Franco prima di uccidere il pentito di nome Nino (ovvero secondo gli inquirenti Antonio Gullì), si fosse consultato con qualcuno “Va bè, ma lui non si è consultato poi prima di fare un caso di questi”.
Franco non doveva chiedere il permesso a nessuno – risponde Franco – in quanto i fatti erano avvenuti sul territorio del quartiere di Modena e, quindi, Franco aveva “titolo” per commettere un omicidio senza chiedere l’autorizzazione a nessuno: “Con chi? Era qua a Modena lo poteva fare e basta”.
Al che G.C. esclama “Ah! E’ stata una decisione sua” e Pitasi aggiunge “Un pentito… Un pentito era…di merda… Eh? Dopo tutto quello che ha combinato!”.
La curiosità di G.C. si appunta sui parenti di Gullì e chiede a Pitasi per quale motivo i parenti del collaboratore di giustizia avessero tentato di uccidere Franco: “E dopo perché i suoi parenti?…I suoi parenti hanno sparato a lui?”. La risposta che riceve è che i parenti del collaboratore di giustizia volevano vendicare il congiunto con l’uccisione di Franco: “E perché non gli è stato bene…”; in più Pitasi aggiunge che Franco avrebbe dovuto immaginare un’azione di vendetta nei suoi confronti e per tale motivo aveva sbagliato a non uccidere anche i parenti del collaboratore di giustizia, “perché non ha menato pure per ammazzare pure a loro… Lui lo sapeva che lo toccavano”.
Ancora incuriosito dalla vecchia storia di ‘ndrangheta, G.C. chiede se una volta scampato al tentato omicidio Franco si fosse distaccato dagli ambienti criminali: “E quindi si è distaccato questo, che fa ora?” ma Pitasi lo esclude in maniera categoria “Chi? Franco? No, che si è distaccato!…”, aggiungendo che ancora oggi Franco è competente su un’intera zona di Reggio Calabria, godendo del rispetto dalla famiglia di ‘ndrangheta dei Rosmini, “Qua ha la sua zona pure lui, ci sono i Rosmini che lo rispettano”.
Perché non ha consumato fino in fondo la vendetta? G.C. vuol sapere da Pitasi perché Franco, dopo essere scampato all’agguato mafioso, non avesse reagito uccidendo anche i parenti del collaboratore di giustizia assassinato: “Voglio dire e poi non ha preso niente, non ha preso posizione, non ha preso niente di…per farseli?”. “Fatti suoi, non vado e gli domando sicuro”, risponde Pitasi, aggiungendo che in passato aveva buoni rapporti con Franco ma col passare del tempo si erano deteriorati: “noi prima andavamo belli d’accordo e tutte cose”, “poi lui da una parte ha ragionato a modo suo ed io ho ragionato a modo mio”.
La conversazione torna a vertere sul comportamento assunto dal collaboratore di giustizia, descritto come un soggetto spavaldo che voleva farsi spazio negli ambienti criminali: “Quello voleva prendere piede allora, no? Il pentito” – “Lo trattava con i piedi” – “Lui si sentiva sicuro che non lo toccano”.
LA COLLABORAZIONE DI GULLÌ La collaborazione di Antonio Gullì con l’autorità giudiziaria iniziò il 7 agosto 1995 nell’ambito del processo Olimpia e durò sino agli inizi del 1996 quando fu protagonista di una “inverosimile ritrattazione” (si allontanò dalla località dove era sottoposto al regime di protezione rendendosi irreperibile) per poi riprendere nuovamente a collaborare dal 20 settembre 1996 fino al 2002. Quando fu ucciso non aveva compiuto 40 anni. Il killer approfittando della confusione per la festa rionale esplose 5 colpi di pistola, 3 proiettili si conficcarono nel petto di Gullì, che trasportato in ambulanza giunse cadavere in ospedale. (redazione@corrierecal.it)
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