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«Diversamente felici nelle aree interne»

di Francesco Bevilacqua*

Pubblicato il: 07/08/2020 – 11:52
«Diversamente felici nelle aree interne»

Una sera di fine giugno, dinanzi alla domanda di Giorgia, un’amica padovana che veniva in Calabria per la prima volta ed era curiosa di capire come riuscissimo a vivere, noi calabresi, in certe aree interne della regione che, nell’immaginario collettivo, sono il distillato dell’abbandono, dello spopolamento, della mancanza di servizi, ho risposto di getto: «È semplice: ci viviamo nonostante tutto, diversamente felici». Mi ha guardato strizzando gli occhi, sforzandosi di capire. Ma dopo un paio d’ore trascorse seduti dinanzi ad una tavola imbandita, a discutere con ironia delle nostre cose, ha detto: «forse vuoi dire che non vi si può giudicare con gli occhi di chi vive in luoghi tanto diversi, in comunità tanto differenti e che basta calarsi un po’ nella vostra realtà locale per comprendere che siete come una comunità di diversamente abili, che devono sbattersi ogni giorno contro barriere architettoniche, disfunzioni, pregiudizi, stereotipi?».
Giorgia aveva capito. Ed anch’io avevo fatto un passo avanti nella ricerca di una definizione che potesse calzare per tutte quelle donne e quegli uomini che abitano nei piccoli paesi, nelle campagne della Calabria. Da lì è nato il titolo della nuova edizione del Festival delle Erranze e della Filoxenia, che da tre anni teniamo nell’area del Reventino-Mancuso, il massiccio montuoso che si erge fra la Piana di Sant’Eufemia e la Sila Piccola.
Riabitare le aree interne italiane: è il mantra che domina buona parte del dibattito culturale e politico italiano. Si espongono progetti, si pubblicano libri, si fanno leggi, si destinano risorse. C’è un libro uscito nel 2018, curato da Domenico Cersosimo e Fabrizio Barca per Donzelli che si intitola proprio “Riabitare l’Italia, le aree interne tra abbandoni e riconquiste”, ricco di informazioni e di dati, che traccia un quadro esauriente del problema e delle possibili soluzioni. Tuttavia, a mio parere, il rischio, soprattutto in Calabria, è quello di riempire, ancora una volta, le aree interne di “cose” inutili anzi deleterie per le comunità che le abitano, esattamente come si è fatto in passato: zone industriali fantasma, pale eoliche, centrali a biomasse, centraline idroelettriche, strade, grandi attrattori, opere pubbliche, ostelli, rifugi, ora perfino parchi avventura e giostrine varie etc. È uno scenario consueto, soprattutto da quando spopolamento e abbandono hanno trasformato le aree interne in zone apparentemente vuote, prive di “custodi”, senza genius loci, dalle quali le fate sono fuggite, come recita, per l’appunto, una favola del Reventino.
Solo apparentemente però. Perché in realtà questi territori “vuoti” (ma il vuoto non è forse un importante elemento della materia, secondo la fisica moderna?) sono divenuti gli ultimi sacrari dei “nuovi lussi” dell’Occidente opulento, come li chiama Terry Paquot in un suo libro: spazio, tempo, silenzio. Ed è nei luoghi, nei paesaggi, nelle aree dell’interno, sempre più vaste, restituite alla natura ed alla storia, che si declinano queste parole tanto ambite da chi vive nelle società urbane, ipertecnologiche, iperprotette, tracimanti di persone magari ricche o comunque “agiate” che però sono tristi, depresse, insoddisfatte delle loro vite lontane da quella parte altamente “terapeutica” della realtà che è fatta di luoghi dove la natura prevale sull’artificio.
Ecco perché quest’anno il nostro festival ha deciso di dire che per “riabitare” i luoghi occorre prima “riabilitarli”. È necessario cioè ricostruirne la reputazione, decostruendo, nello stesso tempo, quel nefasto immaginario collettivo che ha avvolto i luoghi dell’interno in un sudario di miseria, tristezza, malinconia. Occorre far comprendere, invece, che quei luoghi hanno valore per come essi sono, che non bisogna trasformarli in ciò che non potranno mai essere: ad esempio delle giostre per il divertimento coatto di masse sguaiate di turisti mordi e fuggi. Bisogna smettere di pensare alle aree interne della Calabria, alle montagne, che tanta parte hanno avuto nella storia di questa regione, come ad un “non ancora dello sviluppo”, per usare un’efficace metafora di Franco Cassano. La vera “attività produttiva” delle aree interne della Calabria è proprio il paesaggio storico, inteso come crogiolo di natura e cultura, di scenari incontaminati e di opere dell’uomo, così come tali elementi vengono percepiti dagli osservatori, da tutti coloro, cioè, che si dispongono alla conoscenza, alla visita, all’utilizzo a vario titolo di quelle visioni, siano essi pianificatori, sviluppisti, imprenditori, fruitori, turisti, abitatori. Il paesaggio sta a tutte le attività che si fanno nelle aree interne della Calabria come il “terroir” (ossia il rapporto che lega un vitigno al microclima e alle caratteristiche minerali del suolo in cui è coltivato e che determina il carattere e l’unicità del vino che viene prodotto) sta ad un buon vino.
Se ci pensiamo bene, le poche attività economiche che abbiano avuto effettivamente risucita nelle aree interne della Calabria sono proprio quelle nate dalla vocazione dei luoghi e che mantengono un forte legame con il paesaggio.
Ma i primi a comprendere tutto questo, i primi a ri-conoscere il valore del paesaggio e a decostruire gli stereotipi devono essere gli stessi abitanti dei luoghi, che oggi vivono per lo più in quella condizione che io chiamo “coma neurovegetativo topografico”, vale a dire in una sorta di soporifera amnesia dei luoghi. Salvo che per le tante, piccole ma attive “cliniche dei risvegli” nate nelle aree interne grazie a gruppi di persone appassionate, per curare quella malattia ormai endemica e che andrebbero, a buon titolo, inserite nel sistema sanitario regionale piuttosto che considerate, al più, iniziative culturali locali.
Ecco perché il nostro festival, quest’anno, ha voluto affermare che nelle aree interne del Reventino, riconsegnando ai luoghi il loro ruolo di miniere dove i preziosi non vengono estratti ma lasciati sul posto come veri attrattori, si può vivere poveri (nell’accezione che a questo termine danno Pier Paolo Pasolini, Goffredo Parise, Leo Longanesi, José Alberto Mujica), ma felici; anzi “diversamente felici”.
*naturalista, avvocato, scrittore

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