di Pablo Petrasso
CATANZARO C’è un filo comune che lega le angosce di tutti i boss del Vibonese intercettati nel corso dell’inchiesta Rinascita Scott. Sanno che Andrea Mantella, ex killer pentito, collabora con i magistrati della Dda di Catanzaro, vivono in attesa di una catastrofe (per loro, ma che sarà una liberazione per il territorio) incipiente. Cercano disperatamente informazioni rivolgendosi ad avvocati più o meno “vicini”, come Giancarlo Pittelli e Francesco Stilo, commentano la difficoltà di trovare agganci in uffici giudiziari che appaiono blindati o, comunque, assai meno permeabili rispetto al passato.. Manifestano difficoltà che, in passato, erano state superate grazie a “talpe” e punti di riferimento sicuri.
Anche il presunto capoclan di Zungri Giuseppe Accorinti ricorda i tempi in cui le informazioni uscivano con facilità e si riuscivano a evitare i blitz delle forse dell’ordine grazie a una soffiata. Il boss mostra tutto il proprio astio nei confronti della pm (attuale procuratore aggiunto a Cosenza) Marisa Manzini. «La Manzini mancu li cani – dice a uno dei suoi luogotenenti, Nicola Fusca -. Se tu pensi che quando se n’è venuta da Torino.. quando se n’è venuta da Torino questa p…, praticamente, c’era la Katia che gli faceva firmare i mandati di cattura perché non… e lei praticamente l’hanno portata appositamente per firmare quelle cose… per fare l’operazione! Hai capito? Quell’altra non glieli firmava, hai capito?». Non è la prima volta che Marisa Manzini viene descritta come uno spauracchio dai membri dei clan del Vibonese. Il magistrato ha ricevuto minacce gravi, in un caso anche durante una udienza del processo “Black Money” a carico della cosca Mancuso. «Fai silenzio, ca parrasti assai», la frase rivolta all’allora sostituto procuratore dal capo del sodalizio alla sbarra, Pantaleone Mancuso alias “Luni Scarpuni”.
Accorinti non commenta le difficoltà ma ricorda gli aiuti arrivati in passato. «Praticamente c’era… avevo una ragazza (figghiola, dice) io.. una ragazza femmina e… praticamente nella Procura, hai capito? Lo sapevo prima che le facessero». Il capo della locale di Zungri poteva usufruire di notizie riservate e muoversi di conseguenza. «A me… mi prendevano me lo portavano e lo cambiavano, mi portavano là sotto… uno lo portavano in un altro.. uno lo portavano in un altro».
«La sera – racconta a Fusca – quando dovevano fare l’operazione… mi ha chiamato: “Amore mio dove sei?”. “In campagna”. “Vedi che stamattina… domani mattina presto ti fanno una grandissima perquisizione!” Hai capito? Perché là praticamente là dopo che hanno fatto? Quando l’hanno messa come operazione… per non metterla come operazione loro prima l’hanno messa come perquisizione». Accorinti ricorda il livello di dettaglio delle informazioni ricevute all’epoca («Non sei da solo!», «Ci sono tanti altri nomi», «Oggi però praticamente di altri nomi non ho potuto leggere tutto») e tesse le lodi della propria informatrice. «Lei sapeva tutto! Lei poi la sera mi chiamava e mi diceva “Amore mio! Ti fanno questo!… Amore mio ti fanno quest’altro… Amore mio stanno cercando questo… spostalo da un lato ad un altro!” dice… Una figlia di p… era quella (…) nella Procura… Hai capito? Lei si infilava là dentro». «Specialmente questi che studiano in informatica!», risponde Fusca. «Questi il computer te lo fanno pezza pezza.. Era una buona figlia di p… unica guarda!».
Per i magistrati della Dda la sintesi – contenuta negli atti della maxi inchiesta – è chiara: «Era lo stesso Accorinti a riferire di aver beneficiato in passato di informazioni che – da quanto si rileva – sarebbero state fornite da un’impiegata (chiamata Katia) di una Procura che, considerati i riferimenti alla dottoressa Manzini, potrebbe corrispondere a quella di Catanzaro». (p.petrasso@corrierecal.it)
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