Il tema dei costi della politica anima ormai da anni il dibattito pubblico italiano, al punto da ritagliarsi un ampio e fobico spazio mediatico. Oggi è la volta, non la prima, della discussione sull’ipotetico taglio del numero dei parlamentari, sul quale saremo chiamati ad esprimere la nostra preferenza il prossimo 20-21 settembre. Una proposta di modifica degli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione al fine di ridurre il numero dei parlamentari da 630 a 400 alla Camera dei Deputati e da 315 a 200 al Senato. Uno dei cavalli di battaglia per Di Maio, Di Battista e tutto il M5S per il quale, si sa, rappresentava e rappresenta la panacea di tutti i mali che affliggono le casse dello Stato. Ma quanto varrebbe un taglio dei costi della politica in questo caso? Se consideriamo, appunto, ciò che riporta il bilancio della Camera nel triennio 2018-2020, ossia che per pagare indennità e rimborsi a 630 deputati, lo Stato spende ogni anno 144,9 milioni di euro, ricaveremo un costo annuo di 230 mila euro a deputato. Una riduzione di 230 deputati, dunque, creerebbe un risparmio potenziale di 52,9 milioni di euro ogni anno. Il Senato spende invece 249.600 euro l’anno per senatore. Un taglio di 115 membri di Palazzo Madama farebbe risparmiare circa 28,7 milioni di euro ogni anno. Si tratterebbe, quindi, rispettivamente del 5,5% delle spese totali di Montecitorio e del 5,4% di quelle di Palazzo Madama. Tra Camera e Senato, i risparmi sarebbero di 81,6 milioni di euro ogni anno. Il che, rapportato al nostro debito pubblico, significa lo 0,005% e un seicentesimo scarso di quanto spende l’Italia ogni anno solo di interessi sul debito stesso. Cifre ben lontane da quanto sostenuto da Di Maio e accoliti, secondo i quali, dal taglio dei costi dei parlamentari, ricaveremmo 100 milioni di euro all’anno, cioè 500 milioni a legislatura e dunque un miliardo di euro in dieci anni. Ciò non significa che non si debba fare uno sforzo per ridurre tali costi, perché se si vogliono ridurre gli sprechi nella spesa pubblica non si possono escludere quelli di cui beneficiano i governanti. Ma occorre fare finalmente un’operazione verità per evitare di illudere i cittadini e riportare sui binari della serietà il dibattito politico, perché riducendo i costi della politica non si possono risolvere i problemi della finanza pubblica italiana e dai numeri sopracitati si comprende facilmente come il taglio dei costi della rappresentanza (perché si, la rappresentanza e dunque la democrazia hanno un costo) non sia certo una soluzione per finanziare ingenti voci di nuova spesa pubblica prevista, come gli strumenti per il contrasto alla povertà, i pre-pensionamenti e il taglio delle imposte. D’altronde gli interventi più importanti che negli anni recenti miravano ad un miglioramento della spesa pubblica, stanno lì a testimoniare come questo sia un terreno scivoloso e fuorviante per chi ha davvero a cuore le sorti di un Paese nel quale i divari economici e sociali aumentano ed aumentavano già da prima del lockdown. Nel 2011, su incipit del Ministro Fornero, venne riformato il sistema previdenziale dei parlamentari, con l’abolizione del vitalizio per quelli eletti dopo il 2012. Di conseguenza, dal primo gennaio 2012 scattò un sistema contributivo per i parlamentari neo-eletti e misto per quelli ancora in carica o rieletti. Questo significò un risparmio stimato intorno ai 75 milioni di euro all’anno. Nel 2013 il governo Letta abolì il finanziamento pubblico diretto ai partiti per un risparmio di 19 milioni di euro all’anno dal 2017. Nel 2014 il governo Renzi introdusse un tetto alla retribuzione dei dirigenti della pubblica amministrazione e delle società partecipate, a 240.000 euro lordi all’anno; e sempre nel 2014, lo stesso governo Renzi, abolì l’elezione diretta dei consigli provinciali tramite un’elezione indiretta tra sindaci e consiglieri comunali. Il risparmio sarebbe stato intorno ai 500 milioni all’anno ma il grosso di questa cifra derivò dai tagli alle spese per il personale. Rimembrando quelli che sono stati tra i più importanti provvedimenti in materia negli ultimi anni, si evince chiaramente come il risparmio prodotto rientri nell’ordine di alcune decine di milioni di euro strutturali ma non sufficienti ad individuare le coperture di massicci interventi di spesa pubblica o di riduzione di imposte, tangibili nell’alleanza di governo sottoscritta dalle forze dell’attuale maggioranza parlamentare. La necessità di un taglio degli eletti in Parlamento, com’è noto, è stata più volte sollevata in passato nell’ambito di proposte di riforma che andassero incontro ad una maggiore efficienza delle Camere e, in alcuni casi, al superamento del bicameralismo paritario, prima ancora dell’esigenza di una riduzione dei costi della politica. Si trattava di tesi serie, fondate e figlie di uno studio strutturale di una materia così complessa com’è la nostra architettura costituzionale. Questo referendum non consente di approfondire quelle tesi per il semplice motivo che il taglio dei parlamentari in questione è lineare e non è incluso in una cornice di riforma che consenta di sfruttare tale riduzione per rendere il Parlamento più efficiente e rappresentativo. Alla luce di ciò, non sarebbe saggio e razionale dare il nostro assenso ad una riforma costituzionale la cui incidenza sulla crescita economica del Paese è prossima allo zero e la cui coerenza con i principi della democrazia rappresentativa è condizionata ad una ipotetica legge ordinaria. Sono molte e significative le lacune di questa proposta di legge sottoposta a parere vincolante dei cittadini. Una riforma priva di visione prospettica, figlia dell’ormai nota logica politica che mirerebbe, ancora una volta, a stimolare gli istinti primordiali dell’elettorato, una logica tendente a far credere che diminuendo il numero dei rappresentanti si vada a scalfire la casta quando, invece, accadrebbe esattamente l’opposto: si istituirebbe un Parlamento più selezionato numericamente e di difficile accesso per tutte le istanze sociali e territoriali, direzionato verso le parti più forti della società e dell’elettorato. Ridurre i parlamentari senza rivedere le funzioni del Parlamento, a cominciare dal numero e ruolo delle commissioni, significherebbe innescare un domino di difficoltà e di impasse dagli esiti tutti da scoprire. V’è di più, in quanto la radicalizzazione dello scontro che verrebbe a generarsi affinché si conquisti un numero sempre minore di seggi in collegi più grandi e senza garanzie per le minoranze, favorirebbe inevitabilmente chi ha più sponsor economici privati, ingenerando un’evidente squilibrio dell’eguaglianza di opportunità politica di partenza, costituzionalmente garantita, e con un’esposizione evidente ai rischi di una virata oligarchica dell’intero sistema politico. Ergo, l’alba di una nuova super-casta, un serio pericolo per la democrazia. Non di secondo piano è poi la questione riguardante i delegati regionali che partecipano all’elezione del Capo dello Stato, perché al momento sono 60 su circa 1000 parlamentari tra entrambe le Camere. Se quest’ultimi diventassero 600, il loro ruolo assumerebbe un peso senza precedenti nella nostra Storia repubblicana in vista della scelta del successore di Sergio Mattarella, prevista all’inizio del 2022. Questi sono i veri nodi della questione che i cittadini sono chiamati a sciogliere per via referendaria il 20 e 21 settembre prossimo sul taglio del 36,5% del numero dei parlamentari. Questa è la logica populista, che da sempre si identifica contro i corpi intermedi e mira a svuotare le istituzioni, attraverso una fantomatica lotta alla casta che puntualmente cela interessi miranti all’occupazione del potere fine a se stesso e che si traduce in becero sostituzionismo. La democrazia parlamentare, che è esercizio complesso, si regge su una ragione precisa, come voluto dai padri costituenti: la rappresentanza ha bisogno di partiti o gruppi politici, senza i quali essa non è autenticamente rappresentanza politica ma delega elettorale verso i notabilati di t
urno. Se davvero vogliamo continuare a dare un senso alla rappresentanza, soprattutto nel Mezzogiorno, dove imperano classi dirigenti spesso inadeguate e cooptate dalle segreterie romane in base alla fedeltà (con le dovute eccezioni, ovviamente), non possiamo che volere un Parlamento nel quale, per eleggere un rappresentante, non occorrano quasi il doppio dei voti che servono oggi.
Non è questo l’interesse di un Paese che mai come oggi ha bisogno di essere pacificato e che necessita di coesione sociale per rimettere al centro il bene comune e l’interesse generale. Per queste ragioni Italia del Meridione voterà NO a quello che altro non è che un “taglio della democrazia”!
*Segretario Federale Italia del Meridione
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