La campagna referendaria è praticamente chiusa, ed è ora di tirare le somme di quanto si è detto e sostenuto. Chi scrive, dopo essersi confrontato con gli argomenti spesi dai sostenitori del SI, crede che le ragioni del NO abbiano non solo retto a quelle contrarie quanto piuttosto si siano irrobustite.
Nelle ultime settimane, la discussione si è concentrata sui pilastri che reggono (avrebbero dovuto reggere) la riforma. Secondo le tesi a favore della riduzione drastica del Parlamento, sposate anche da autorevoli commentatori, la proposta di riforma produrrebbe: 1. risparmio nei conti pubblici; 2. miglioramento nell’efficienza dei lavori parlamentari; 3. allineamento agli altri Paesi europei, con un numero di parlamentari eletti molto più limitato rispetto a quelli del nostro Paese; 4. ridimensionamento del numero secondo una linea riformatrice già ampiamente tentata da tutte le forze politiche (soprattutto di sinistra) negli ultimi quarant’anni; 5. un sistema coerente alla più ampia presenza di consessi elettivi.
Se la tesi del risparmio dei conti pubblici è debole, risibile e pericolosa (ogni cittadino risparmierebbe ben un caffè all’anno) e se quella del miglioramento nell’efficienza dei lavori parlamentari è ingenua perché indimostrata, quelle richiamate nei punti 3, 4 e 5 richiedono un surplus di critica argomentativa. L’Italia sarebbe un Paese anomalo per il numero eccessivo dei parlamentari. Falso! Per effettuare una comparazione fra elementi omogenei e quindi fra le sole camere basse (e non come fanno molti esponenti politici, ma non solo loro, che parlano di Parlamento tout court), si considera la sola Camera dei deputati, in quanto a differenza degli altri Paesi, in Italia non una ma due sono le camere elettive.
In Italia il numero di deputati è di 1 unità per 100.000 abitanti. Tale percentuale è identica a quella del Regno Unito e molto simile a quella della Francia, della Germania e dei Paesi Bassi (0,9) e anche della Polonia (1,2) e del Belgio (1,3). In altri Paesi, poi, il rapporto è decisamente più alto: in Austria (2,1); in Danimarca (3,1); in Grecia (2,8); in Portogallo (2,2); in Svezia (3,4). Quindi l’Italia è fra i Paesi che hanno meno deputati rispetto alla propria popolazione. Con la riforma, il rapporto scenderebbe addirittura a 0,7 e quindi l’Italia vanterebbe la percentuale più bassa di tutti i Paesi europei, financo della Spagna (0,8). Ma se il fine è l’allineamento con gli altri Paesi, allora la proposta di riforma avrebbe dovuto interessare il superamento del bicameralismo paritario e non già la mera riduzione dei parlamentari. Ma il fine della riforma è evidentemente un altro: ridimensionare il più possibile il Parlamento! La riforma, infatti, riduce il rapporto fra cittadini e parlamentari incidendo – come è ovvio che sia – sulla rappresentanza; aumenta, cioè, lo iato tra rappresentante (eletto) e rappresentato (elettore).
Si passa da un deputato ogni 96.000 abitanti a uno ogni 151.200, e da un senatore ogni 188.000 abitanti a uno ogni 302.000. Il già minimo rapporto fra elettore e proprio rappresentante sarebbe del tutto inficiato dalla netta distanza fra il corpo elettorale e le istituzioni che saranno così sempre meno rappresentative, favorendo e non ponendo piuttosto un argine alle logiche di antipolitica. Considerato che le istituzioni già sono lontane, non pare un’ottima strada quella intrapresa. A parte la considerazione, secondo cui una simile irragionevole riduzione del numero dei parlamentari non farà altro che rafforzare (o comunque non arginare) il potere dei partiti nella selezione delle candidature per i seggi della Camera e del Senato. Sono quarant’anni che sarebbe presente nell’agenda politica di quasi ogni Legislatura la riduzione del numero di parlamentari. Anche questa tesi non convince minimamente. Dal 1963, anno della costituzionalizzazione del numero fisso dei parlamentari (fino ad allora il numero variava al crescere della popolazione “in ragione di 1 deputato ogni 80.000 abitanti”, e di “1 senatore ogni 200.000 abitanti”), si sono succedute dalla IX Legislatura (1985) almeno 11 proposte di riforma (fra le altre, quelle elaborate da: le Commissioni Bozzi, De Mita-Iotti, Speroni, D’Alema; la riforma di Berlusconi del 2006; la Bozza Violante; le bozze dei Saggi del Presidente Napolitano e poi di quelli di Letta; la riforma di Renzi del 2016) tutte prevedevano anche la riduzione del numero dei parlamentari. Qui l’uso dell’avverbio è decisivo per quanto si sostiene, vale a dire che la riduzione dei parlamentari non ha rappresentato in alcuna proposta l’oggetto esclusivo di una riforma, quanto piuttosto la conseguenza obbligata di una revisione complessiva dell’architettura costituzionale; con il che si dimostra facilmente la singolarità della legge di revisione costituzionale attuale e la sua impossibile riconducibilità all’esperienza del passato. Che sia così è facilmente apprezzabile riportando le parole pronunciate dall’on. Nilde Iotti (in queste settimane citata, non si sa quanto in buona fede, da chi comunque dimostra di non avere memoria politica e conoscenza istituzionale) allorquando decise di non dar seguito alla diminuzione del numero dei parlamentari nel disegno di legge costituzionale elaborato dalla Commissione da ella autorevolmente presieduta insieme all’on. De Mita (1992-1994): “Mancando una intesa su una riforma complessiva e compiuta si decide di non affrontare il tema delle riforme del Parlamento se non nella sua interezza. Modifiche parziali avrebbero potuto, infatti, apparire monche e contradditorie”.
Nello stesso esplicito senso la Commissione D’Alema (1997), che stralciò la proposta della riduzione del numero dei Deputati (tra un minimo di 400 e di un massimo di 500) e dei Senatori (200), perché bisognava “evitare che una scelta secca di riduzione drastica potesse essere intesa come genericamente ispirata a istanze antiparlamentariste e comunque a intenti demagogici”. Ricordando che l’unica volta in cui la Camera diminuì drasticamente la sua composizione come oggetto esclusivo di una riforma fu il 1928 (sic!) quando si passò da 535 a 400 deputati, per poi essere definitivamente abolito con la l. n. 129/1939, e per come si è fino a qui argomentato, le ragioni del SI alla riduzione del Parlamento perdono, ancora una volta, le fondamenta della loro narrazione svelando la vera finalità dell’operazione di taglio, vale a dire il populismo e la demagogia, nutriti di propaganda basata su falsità che, seppure ripetute, rimangono tali. Ecco perché, fra le altre ragioni, bisogna votare NO, perché negli ultimi quarant’anni nessuno ha mai proposto di limitare la riforma della composizione delle Camere alla sola dimensione numerica, riducendo senza ragione alcuna il luogo della “rappresentanza politica nazionale (art. 67 Cost.), la quale imprime alle sue funzioni una caratterizzazione tipica ed infungibile” (sentenze nn. 106 e 306 del 2002 della Corte costituzionale) tanto da non poter essere parcellizzata ed esercitata in altri luoghi istituzionali (Parlamento europeo, Consiglio regionale, comunale, e così via). Ciò di cui si necessita è di più Parlamento, di più qualità legislativa, di maggiore democrazia interna ai partiti, di migliore rappresentanza. Di un Parlamento che governi le decisioni politiche e non sia più mero passacarte del Governo. Sono anni che si critica l’abuso e non ci si impegna per un uso costituzionale del decreto-legge; sono mesi (quelli recenti della normativa anti-pandemica) che si critica l’abuso e non ci si impegna per un uso opportuno del DPCM (decreto del Presidente del Consiglio dei ministri); sono due anni che si denuncia (prima da una parte politica, poi dall’altra) che le leggi di bilancio non sono né lette né discusse in Parlamento; è almeno da un ventennio che ci si allarma per uno scollamento vieppiù marcato tra rappresentanti e rappresentati e per l’allontanamento dalla Politica per sfiducia diffusa.
Se queste critiche sono sovente portate all’attenzione dell’opinione pubblica, la riduzione del numero dei parlamentari non dà risposta alcuna alle problematiche connesse al funzionamento della forma parlamentare di governo, anzi meno Parlamento produce una contraddizione non solo politica ma debole sul piano propriamente logico e organizzativo che compromette la stessa possibilità che il Parlamento non continui ad apparire ai più come una istituzione totalmente pletorica e inefficiente, tornando piuttosto a costituire il luogo della rappresentanza per la risoluzione delle problematiche che attanagliano il nostro tempo e presumibilmente quello delle generazioni future. Non esiste alcuna ragione su cui la proposta di riforma si basi fondatamente. Ecco, perché dinanzi alla mancanza di ragionevoli ragioni, davanti a noi pare che ci sia non altro che è il frutto naturale del più bieco populismo dal momento che si basa su pilastri deboli e indimostrati. L’anti-partitismo si è tramutato prima in anti-politica ora in anti-parlamentarismo; ciò che si riduce è il Parlamento, non si manda a casa quel politico di turno che dimostra di non saper gestire con dignità ed onore la cosa pubblica. Il NO rappresenta lo scatto di reni che si aspetta da anni. Costituirebbe la risposta ad una politica che da più decenni è autoreferenziale e (ora) anche populistica, svalutando e delegittimando fattualmente le stesse funzioni parlamentari. È dalla crisi finanziaria della prima decade degli anni 2000 che si assistite ad una politica di tagli lineari, e da tempo se ne stanno cogliendo gli effetti negativi in tutta la loro portata: ospedali decaduti e decadenti che non possono rispondere alle richieste di assistenza (e non solo epidemicoemergenziale); Enti (Comuni e Province) che non riescono ad esercitare le funzioni attribuite loro (scuola, trasporti, rifiuti, …), con servizi pubblici che sempre più spesso non riescono ad essere erogati. Ci accorgiamo sempre troppo tardi che la strada intrapresa era quella sbagliata. In questo caso già sappiamo che comunque dovrebbero esserci dei correttivi, obbligati dalle conseguenze certe e negative della riduzione drastica: ma quali? Nella disponibilità di quale maggioranza, evidentemente mutevole? Solo oggi ci rendiamo conto che la riforma costituzionale del 2001 in molte sue parti è potenzialmente disfunzionale e anche dannosa e che la sua sciatteria redazionale sta comportando conseguenze problematiche e non solo interpretative (divisione competenziale tra Stato e Regioni, regionalismo differenziato anche per materie sensibili, …); che quella del 2012 sulla parità di bilancio sta indebolendo il nostro Sistema-Paese. Le ragioni del NO hanno retto nel dibattito referendario perché si è compreso che le ricadute negative della riforma sono maggiori dei benefici auspicati e non si vuole rischiare che fra qualche anno ci si debba rendere conto che un Parlamento che non accoglie le minoranze non può dare risposte convincenti alle fratture presenti nella società, che un Parlamento che non riesce a parlamentare perde parte della sua stessa essenza, che la democrazia rappresentativa da due secoli a questa parte è un bene che non poteva né doveva essere messo in discussione da una riforma populisticamente orientata, che la riduzione del 36,5% del Parlamento non era fondata su nessun calcolo aritmetico e meno ancora su nessun valido modello istituzionale di riferimento e che anzi avrebbe compromesso ulteriormente l’organizzazione e il funzionamento delle Camere, anzi che poneva sotto stress quel preciso numero che nel 1963 è stato deciso non per caso o senza una ragione ma in quanto funzionale alla sostenibilità del sistema nel suo complesso.
*Costituzionalisti, docenti Unical
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