Se il male fosse un fatto antropologico, sarebbe inutile discuterne. Se fosse una patologia cronica che predilige i calabresi, i medici sarebbero un misero palliativo. E se l’unico dramma calabrese fosse la ‘ndrangheta, ci sarebbe da festeggiare. È banale sostenerlo, ma le drammatiche condizioni della Calabria nascono da una serie di concause che bisognerebbe risolvere con lo stesso impegno per liberarla da tutto il suo male. Gli esempi non sono mai perfetti, ma le metafore spiegano meglio, aiutano la riflessione e sedimentano in testa elementi che macinano l’acqua come le ruote del mulino.
Che i calabresi siano fatalisti non è totalmente vero, teste dure lo sono, i poveri più di tutti e, fra essi, i montanari hanno corna d’acciaio e mai hanno avuto buone terre da coltivare, se non quelle altrui da zappare per un soldo a giornata. Ai montanari toccavano le pietraie, aride quanto un deserto per convinzione padronale. Questi ci scavavano buche, con gli ornamenti metallici, e ci piantavano dentro i bagolari. Cinque, dieci anni e le radici degli alberi trasformavano le pietre in polvere fine. Mastre d’acqua scavate nella nuda roccia e anche loro avevano un orto. Altro che fatalisti, lavoratori instancabili, che rubavano metro su metro terra ai fianchi delle montagne di granito. Gente che per millenni ha sfidato la natura, è sopravvissuta e che poi, le corna, è andata a spaccarsele in America, in Europa, in nord Italia. Altro che fatalisti, sempre e comunque in strada a sfidare il destino. Oggi, per rappresentazione comune, ridotti a briganti di passo, immersi in condizioni sociali cronicamente nefaste. Inganni che io, di Africo, ho visto da bambino: quando col caldo il maestro ci portava in piazza a studiare. Seduti all’ombra di un gigantesco bagolaro ci mostrava il selciato ai suoi piedi ridotto in polvere. Questo siamo stati noi, uno spaccasassi, abbiamo sempre avuto la forza di trasformare la roccia in terra. Non c’è cosa che non possiamo fare né destino che non si può modificare. Arrivavano le divise a dire che le lezioni lì non si potevano fare, arrivavano i notabili a dire al maestro che noi solo zappatori potevamo diventare e venivano le coppole a prendersi i bambini e mostrargli la strada. Metafore per ieri, per oggi e per domani. Coppole, cappelli e pennacchi, come sempre, per spegnere speranze e statuire destini. Così, di generazione in generazione, tanti ragazzi di Calabria si sono persi, hanno consegnato le loro vite giovani a strade infami che hanno travolto le proprie e le esistenze altrui. La cura è mancata, da parte di tutti, e la cura continua a mancare.
A smuovere qualcosa, con coraggio e umiltà, da qualche anno ci prova il Tribunale per i Minori di Reggio, col giudice Di Bella e il programma Liberi di Scegliere, che vuol dare una possibilità ai ragazzi che vivono in contesti difficili. Su questa linea, il dottor Roberto Di Palma, procuratore facente funzioni presso la procura dei minori, lancia un allarme, chiama alle proprie responsabilità tutte le agenzie educative, avverte sugli atteggiamenti moralistici, e punta dritto alla fonte primaria dell’educazione dei ragazzi: la famiglia. La famiglia ha obblighi legali, morali, nei confronti dei figli. Ha, soprattutto, la promessa dell’amore, che è l’origine della venuta al mondo. La cura. Emolte famiglie non hanno dato tutta la cura che le vite nuove avrebbero dovuto avere. Ma molte famiglie, anche quando vorrebbero aiutare i figli, non sono aiutate esse stesse nella cura.
I ragazzi diventano numeri indistinti, dice Di Palma, sono mutilati nella loro individualità già all’interno delle famiglie, non si sentono considerati nella loro complessità soggettiva, nella loro propensione multi-sentimentale. E allora sono preda di chiunque riesca a manipolarne la personalità, a farli sentire importanti, capaci, insostituibili. Così si cade in una rete criminale che abbranca vite come fossero pesci e le dissolve in una manovalanza criminale spicciola, destinata al sacrificio. E il dottor Di Palma ha ragione. Le famiglie, alcune, amano male i figli, non sanno amarli, non si sforzano abbastanza. Rendono agevoli le scelte distruttive. Molte famiglie però vorrebbero avere tutta la cura necessaria, ma vivono in contesti dove la normalità non esiste, né quella economica, né quella sociale, né quella culturale. Ci sono famiglie in cui i genitori sono stati, a loro volta, figli senza cura, che hanno fatto errori per i quali la società li ha messi all’angolo, senza possibilità di riscatto. Io ci sono nato nelle rughe, i ragazzi di un tempo, che hanno messo al mondo dei figli, non hanno più la possibilità di essere genitori normali, fanno e faranno ricadere i loro sbagli sui figli. Non le daranno e non le potranno dare le cure, l’educazione, necessarie. Il genitore che è fuori dal lavoro per gli errori del passato, che è fuori dall’assistenza, che è fuori dalla società, perché marchiato, non ce la farà a salvare i propri figli. E la libertà di scegliere dei ragazzi di Calabria passa soltanto dal diritto di dare una opportunità ai loro genitori, anche a quelli che hanno sbagliato gravemente. La libertà dei ragazzi passa dalla riavuta libertà delle loro famiglie. Senza questa scelta ci saranno sempre tante, troppe famiglie, che consegneranno i propri figli al dolore.
* Scrittore
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