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«I Ranisi volevano Vibo. Ecco perché “Rinascita” ha scongiurato una guerra tra cosche»

Le provocazioni alle ‘ndrine rivali, il ferimento strategico del capo cosca dei Cassarola, l’estorsione al protetto di Vincenzo Barba, la sfida ai Mancuso. «E’ vero, l’operazione della Dda ha ferma…

Pubblicato il: 20/09/2020 – 9:41
«I Ranisi volevano Vibo. Ecco perché “Rinascita” ha scongiurato una guerra tra cosche»

di Alessia Truzzolillo
CATANZARO I Ranisi volevano crescere, volevano che Vibo Valentia soggiacesse al loro potere e a quello di nessun altro. E per questo il rischio dello scatenarsi di una guerra tra famiglie di ‘ndrangheta era concreto e, anzi, parecchio prossimo. Ma dopo la maxi-retata dell’operazione “Rinascita-Scott”, il 19 dicembre 2019, con capi e manovalanza delle ‘ndrine vibonesi in prigione, ogni proposito è stato placcato. A distanza di tempo il nuovo collaboratore di giustizia Gaetano Antonio Cannatà (alias “Sapituttu” imputato per associazione mafiosa, partecipe dell’associazione dedicandosi in particolare all’esercizio abusivo del credito e all’usura) conferma quanto la Dda di Catanzaro e i carabinieri della Provinciale di Vibo, avevano paventato. Arrestato con l’accusa di associazione mafiosa e usura, Canntà racconta al pm Antonio De Bernardo che in carcere aveva avuto modo di apprendere che l’operazione antimafia aveva scongiurato una guerra tra cosche. Cannatà chiede lumi a Luciano Macrì che si trovava nel carcere di Tolmezzo con lui, detenuto già prima dell’operazione. Sarà l’arrivo di Giuseppe Camillò, arrestato con Rinascita (tra i promotori dell’associazione “Pardea-Ranisi”), a dare conferma definitiva alle informazioni già in possesso di Macrì.
«Intanto Macrì mi spiegò che il suo gruppo, quello cosiddetto dei “Ranisi” stava proseguendo la politica criminale portata avanti da Andrea Mantella ed interrotta dopo la collaborazione di questi con la giustizia. L’idea, quindi, era quella di una progressiva emancipazione della ‘ndrangheta di Vibo Valentia dall’egemonia dei Mancuso, nonché quella di un ridimensionamento degli storici esponenti dei Lo Bianco-Barba (che lui chiamava “i vecchi”) i quali avrebbero dovuto, secondo questo progetto criminale, cedere il passo alle nuove leve dei “Ranisi”. Tale strategia stava funzionando all’epoca della escalation criminale di Mantella, con gli esponenti dei Lo Bianco-Barba intimiditi che quasi non uscivano più di casa, ma aveva subito un’importante battuta di arresto con la collaborazione di Mantella a seguito della quale “i vecchi” avevano riconquistato terreno nelle logiche criminali. La strategia di Mommo Macrì (promotore e direttore della ‘ndrina Ranisi) e del suo gruppo era quindi quella di riprendere il totale ed esclusivo controllo della città di Vibo Valentia e tale intenzione era sottesa a qualunque atto criminale che il gruppo avesse compiuto nell’ultimo periodo».
IL FERIMENTO DI SARO PUGLIESE CASSAROLA Per scatenare una guerra in ambienti di mafia basta poco, basta fare uno sgarro al quale la famiglia rivale deve rispondere per poi avere l’occasione di rispondere a propria volta. Fino a che la faida non si accende e il sangue macchia le strade. Era questo lo scopo del ferimento al piede di Saro Pugliese Cassarola, capo e direttore della ‘ndrina Cassarola di Vibo Valentia. Attirato in trappola con la scusa di un chiarimento dovuto al comportamento del cognato, all’appuntamento si era presentato Mommo Macrì il quale, dopo un’accesa lite, gli aveva sparato a un piede. «Questo episodio doveva essere – spiega Cannatà –, un pretesto per causare la reazione dei Pugliese Cassatola, in modo da scatenare una guerra contro di loro, sempre nell’ottica delle mire del gruppo “Ranisi” sulla città di Vibo Valentia che volevano interamente sottoposta alla loro influenza».
L’ESTORSIONE A BRUNO MOSCATO Bruno Moscato (un uomo che “praticava l’usura a Vibo”) era sotto la protezione di Vincenzo Barba (considerato tra i promotori, organizzatori, capi e finanziatori della ‘ndrina Lo Bianco-Barba e della società di ‘ndrangheta di Vibo Valentia, inserito nella Società maggiore). Il gruppo Ranisi sapeva che se gli avessero dato fastidio pretendendo denaro da lui avrebbero ottenuto la reazione di Barba. E così fu. Barba e Mommo Macrì ebbero un incontro faccia a faccia durante il quale Macrì gli intimò di «farsi da parte e non interessarsi della vicenda, così apertamente disconoscendone l’autorità mafiosa», riferisce Cannatà. «Sta di fatto che secondo il racconto del Luciano Macrì, il Moscato avrebbe alla fine effettivamente pagato 5.000 euro ai Rainisi».
«La logica di tali azioni – spiega Cannatà –, era sempre l’intenzione del gruppo dei “Ranisi” di dimostrare a tutti di voler comandare incontrastati a Vibo Valentia».
TENSIONI COI MANCUSO Lo scopo era anche quello di volere scalzare i Mancuso, famiglia egemone sulle cosche vibonesi. Luciano Macrì racconta a Cannatà che i rapporti tra il gruppo Ranisi e i Mancuso era ormai così sfibrato che durante un litigio nel carcere di Tolmezzo tra lo stesso Luciano Macrì e un ragazzo di Reggio Calabria, «Antonio Prenestì, pure li detenuto, soggetto a suo dire legato ai Mancuso di Limbadi, aveva preso le parti del reggino piuttosto che le sue che era di Vibo Valentia». I Ranisi stavano coltivando il proprio scopo. E solo un modo c’era per raggiungerlo. La miccia era accesa prima che il terremoto Rinascita arrivasse a spegnerla. (a.truzzolillo@corrierecal.it)

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