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«Dai giudici, un bel da farsi per le Partecipate»

di Ettore Jorio *

Pubblicato il: 06/10/2020 – 20:46
«Dai giudici, un bel da farsi per le Partecipate»

Tempi duri per le partecipate dagli enti territoriali. Tre gli eventi che dimostrano, con una certa vis, la volontà della magistratura (contabile e non) di voler dare ordine all’arcipelago, invero un po’ troppo disordinato e tollerato in tal senso, realizzato da Regioni ed enti locali in decenni di disattenzione, frequentemente dolosa. Soprattutto, di un ricorrente cattivo uso che se n’è fatto, prioritariamente di ivi collocare un ingente quantitativo di dipendenti altrove impediti da blocchi del turnover e divieti similari. Fatto sta, che da oggi in avanti, avendo cura di sistemare anche il passato più eccessivo, occorre cambiare lo spartito.
Tre gli episodi recenti che sottolineano l’esigenza di un repentino cambio di rotta.
Basta con i soliti aiutini fini a se stessi
In primis, un’importante decisione della Sezione regionale di controllo per l’Abruzzo della Corte dei conti rappresentata nella deliberazione n. 157 del 27 luglio 2020. Una delibera che per i suoi effetti farà tanto rumore in alcune aree del Paese. In quelle ove si esperiscono tentativi non propriamente ortodossi di «risanamento» di società comunque a partecipazione pubblica. Contribuirà, tuttavia, a mettere un po’ di ordine nell’esercizio delle politiche sui servizi essenziali, spesso segnatamente confuse negli ambiti del godimento dei beni primari, acqua in primis con a seguito depurazione e rifiuti.  La decisione dei giudici aquilani – che sotto alcuni aspetti suscita però qualche perplessità in relazione all’ammissibilità, sotto il profilo oggettivo, della richiesta del parere pervenuta da parte del Presidente della Regione – assume come detto un certo rilievo, anche per la puntuale ed esaustiva ricognizione che fa degli interventi giudiziali formatisi sulla materia nello specifico. Nella sostanza, la Sezione di controllo abruzzese sancisce un principio, da considerarsi comunque come generale e invalicabile, fondamentale per gli enti territoriali (ma non solo) che può riassumersi in due generi di divieti, uno assoluto e l’altro relativo. Quanto a quello assoluto, riguarda l’interdizione per Regioni ed enti locali di intervenire finanziariamente, a qualsiasi titolo, in favore di società ed enti strumentali posti in liquidazione. D’altronde, sarebbe stato veramente assurdo se non lo avesse posto così decisamente, stante anche all’analogo principio impresso, tra le altre, nella deliberazione assunta dall’attenta Sezione regione di controllo per la Liguria della Corte dei conti n. 84 del 20 aprile 2016. Un dictum importante che afferma l’inammissibilità di qualsivoglia «intervento di  soccorso finanziario nei confronti di società poste in stato di liquidazione ….. le quali rimangono in vita senza la possibilità di intraprendere nuove operazioni ….. ma al sol fine di risolvere i rapporti finanziari e patrimoniali pendenti». Ciò allo scopo di evitare l’insinuazione di risorse pubbliche in una partecipata, destinata esclusivamente alla sua estinzione (attesa la sua equivalenza che il giudice fa alla fallita), e l’assunzione di responsabilità, non solo contabili, da parte degli enti che si rendessero, impropriamente e indebitamente, «generosi» in tale senso con atti contrari all’ordinamento.
Quanto al veto relativo, esso ha riguardato la percorribilità dell’apporto finanziario da effettuare da parte degli enti territoriali soci in favore delle partecipate in presenza delle condizioni dettate dall’art. 14 del vigente d.lgs. 19 agosto 2016 n. 175, disciplinante il fenomeno (propriamente ricorrente) delle crisi di impresa di società a partecipazione pubblica. Ebbene, al riguardo, il magistrato contabile, chiamato ad esprimere il parere, ha testualmente ribadito che alle amministrazioni interessate è dato modo di intervenire in aumenti di capitale delle società dalle medesime partecipate tranne che per quelle che «abbiano registrato, per tre esercizi consecutivi, perdite di esercizio ovvero che abbiano utilizzato riserve disponibili per il ripianamento di perdite anche infrannuali». Non solo. Potrà farlo a fronte di un iter procedurale che, nell’esito, concretizzi un piano di risanamento recante misure di concreto raggiungimento dell’equilibrio finanziario entro un arco di tempo massimo di tre anni. E ancora. Una ipotesi, l’unica percorribile, con finalità di materiale riequilibrio e ristabilimento aziendale e funzionale al «solo perseguimento di esigenze pubblicistiche di conclamato rilievo, in quanto sottendenti prestazioni di servizi di interesse generale» garantiti in continuità e non altrove rintracciabili.
La società in house necessita di una motivazione rafforzata
In secundis, è da considerarsi difficile e complessa la scelta della società in house, quale strumento di autoproduzione di una amministrazione pubblica dei servizi disponibili sul mercato. Interessante, al riguardo, la sentenza resa dal Tar della Liguria (sezione seconda) n. 680 del 23 settembre scorso. Un tema serio, quello appena accennato, che ha impegnato le magistrature di ogni livello e grado. A monte, una sentenza della Corte costituzionale (la n. 100 del 27 maggio 2020) – chiamata ad intervenire sempre dal Tar ligure in relazione alla presunta illegittimità costituzionale dell’art. 192, comma 2, del d.lgs. n. 50/216 (codice degli appalti pubblici) –  con la quale ha sancito l’ineludibile rispetto dei principi di concorrenza, pubblicità e trasparenza. Con questo l’obbligo di motivazione rafforzata della PA che è, di conseguenza, tenuta a fornire ampia e giustificata ragione sulla sussistenza dei requisiti della società in house interessata e, soprattutto, sulla convenienza economica del ricorso a tale modello/rapporto anziché interpellare il mercato. Ciò in deroga all’obbligo di effettuare la scelta relativa mediante gara pubblica, tale da richiedere – per l’appunto – l’obbligatoria presenza in atti di una motivazione rafforzata, relazionata non solo agli obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità bensì a quelli di utilità e qualità del servizio e di impiego ottimale delle risorse pubbliche, conseguibile meglio che diversamente.
Un compito difficile quello di individuare e rappresentare siffatte ragioni, così come quelle – sempre corroboranti della anzidetta tipologia di motivazione – riferite al perseguimento dei benefici della collettività della forma di società/rapporto prescelta, riferiti anche agli obiettivi di universalità e socialità, per come recentemente richiamati dal Tar genovese.
Tenuto conto di siffatte conclusioni, peraltro ribadite in altrettanti dicta della magistratura amministrativa, sarà di gran lunga meno facile per le amministrazioni pubbliche ricorrere alla fattispecie societaria del tipo in house, atteso il suo riconosciuto ruolo di assoluta specialità da tenere conto in deroga alle regole dell’ordinamento solo ed esclusivamente quando ne ricorrano le condizioni. Un modo, questo, per tagliare i numeri di tutte quelle in servizio cui a suo tempo si è fatto facile ricorso per eludere, in gran parte, i divieti occupazionali che le leggi imponevano alla PA di provvedervi direttamente.
Un qualche problema per i contratti di lavoro delle partecipate
In terzis, la Cassazione civile, Sezione Lavoro, con ordinanza n. 21310 del 30 giugno 2020 (depositata ieri 5 ottobre 2020) mette in crisi la conversione dei rapporti di lavoro a tempo determinato in tempo indeterminato. Lo fa riprendendo una altra importante sentenza del 20 agosto 2019 (n. 21528), da considerarsi complementare alla odierna ordinanza. Con quest’ultima, esaminando un rapporto di lavoro intrattenuto con una società in house della Regione Sardegna, ha ritenuto di sancire un importante e, per alcuni versi, preoccupante principio. Ha ritenuto, infatti, ineludibilmente applicabile anche alle partecipate di Regioni ed enti locali l’assoggettamento alle procedure concorsuali del perfezionamento di contratti di lavoro, da formarsi solo con ricorso a reclutamento agonistico pubblico. Il mancato rispetto di un siffatto principio verrebbe a tradursi in un vizio genetico dell’eventuale intervenuto contratto tale da determinarne la nullità. Una affermazione che potrebbe assumere un effetto deflagrante. Ciò in quanto, al di là delle cause giustificative e delle tolleranze recate dall’art. 21 nonies della vigente legge n. 241/1990, verrebbe imposto al titolare di ogni rapporto di lavoro formatosi – da considerarsi irrimediabilmente nullo se non effettuato secondo un percorso di reclutamento concorrenziale pubblico – di dichiarare la nullità dei rapporti medesimi tale da renderla produttiva di effetti ex tunc. Ma questa è un’altra cosa, della quale però la PA dovrebbe cominciare a tenere conto e molto seriamente. Stante gli innumerevoli casi di nullità esistenti, saranno in tanti a doversi, giustamente, difendere dai provvedimenti che saranno verosimilmente adottati.
* Docente Unical

(Intervento tratto dal sito Astrid.eu)

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