CARLOPOLI L’archeologo Francesco Cuteri interviene sul tema del restauro dei ruderi dell’Abbazia di Corazzo, nel comune di Carlopoli, raccontato nel reportage del Corriere della Calabria.
«Scrivo di Corazzo ma potrei e dovrei scrivere di tanti altri luoghi, di altri monumenti o aree simbolo che saranno presto oggetto di interventi di “restauro” o in qualche modo di “recupero”. E mi dispiace moltissimo che la Regione, magari d’intesa con il Mibact, non abbia istituito una Commissione, un Comitato Scientifico per valutare la qualità, l’affidabilità e la lungimiranza dei tanti progetti presentati e finanziati con fondi FERS: Fondi europei di sviluppo regionale. La richiesta, in effetti, era stata già avanzata. Ma forse non si può pretendere troppo, in questo tempo di leggerezze formali e inesistenze strutturali; dove i vuoti prevalgono sui pieni ed hanno il sapore dell’amaro.
Ma torniamo a Corazzo, agli splendidi ruderi dell’abbaia cistercense di Santa Maria, al loro prossimo intervento di recupero annunciato con una bozza di progetto che ha preoccupato e messo in allarme non poche persone: me incluso.
Sarebbe stato bello scrivere oggi di quel luogo elogiandone le idee progettuali, la straordinaria visione: ma non è così.
Infatti, tanti sono stati messi in allarme, in particolare per le modalità con cui tutta l’operazione è stata gestita, in fretta e a mio avviso con limitata divulgazione, e per la stessa progettazione, fortemente invasiva e giustificata, da quanti l’hanno redatta e dalla precedente amministrazione di Carlopoli che l’ha commissionata, con l’esigenza, ritenuta irrinunciabile, di “rilanciare” ad ogni costo il luogo; di trasformarlo in un adeguato contesto di accoglienza in cui celebrare eventi culturali (e magari anche qualche matrimonio).
Quanto mostrato successivamente in un articolo apparso on line sulle pagine del Sole24Ore, ha inoltre evidenziato, in una sequenza fotografica volta a comparare il prima con il dopo, tutta l’esuberante e inopportuna potenza del nuovo intervento. Che non possiamo e non dobbiamo assolutamente definire di restauro; semmai di riqualificazione funzionale.
In questi giorni ho avuto modo di apprezzare come in tanti si siano impegnati a discutere, anche in maniera appassionata, sulla qualità dell’intervento e sul futuro dell’abbazia. Alcuni soffermandosi sul fatto che il nome del progettista è una garanzia; altri sulla necessità di definire concretamente qual è il ruolo che spetta alle comunità; altri ancora invitandoci a riflettere sul significato del termine patrimonio e sui veri destinatari di questa nuova strategia d’intervento. Idee e discussioni straordinariamente interessanti che sottolineano, a volte con toni un po’ troppo coloriti, quanto questo luogo faccia parte del vissuto, degli interessi ed anche dei sogni di tanti calabresi.
Ma c’è una domanda che continua a girarmi per la testa. Che senso ha, in questo momento, intervenire così pesantemente fino a modificare il profilo sensibile dell’area? Si racconta di spazi che saranno creati per accogliere visitatori e in particolare giovani studenti. Ma nella mia immaginazione andare a Corazzo significa respirare area pura, godersi il paesaggio, apprezzare le rovine, entrare nel cuore della storia attraverso una porta discreta.
Esiste un modo diverso di dar valore all’abbazia, e di raccontarne la sua storia, senza stravolgerne le trame architettoniche? Senza crearne a tutti i costi una esclusiva dipendenza dalla figura di Gioacchino da Fiore? So bene che quest’ultima considerazione non piacerà a molti ma, ascoltate, Corazzo è tanto altro, tanto di più. Corazzo è una storia lunga secoli. Corazzo, ancora oggi, con le sue rovine, è il ricordo di un’attenzione antica alle aree interne della Calabria. Corazzo cela il segreto per rinascere. Un segreto che non necessita di “sacrifici” per svelarsi; ma solo di attenzioni, di amore.
Come ho avuto modo di scrivere nei giorni scorsi in alcuni miei post, trovo veramente assurdo che qualcuno, per finalità il cui valore culturale, sociale, e anche economico, deve essere dimostrato, decida di creare ciò che non c’è mai stato. Aggiungendo, deturpando, chiudendo spazi aperti che hanno avuto da sempre la funzione di sostenere l’edificio di culto, realizzando bagni all’interno delle strutture più antiche che ad oggi l’abbazia conservi. E, ancora, immaginando di creare uffici, punti di accoglienza e uno spazio espositivo che meriterebbe invece di essere collocato in uno dei bei palazzi che a Carlopoli sonnecchiano in stato di abbandono. Questa è una idea che avevo già proposto tanti anni fa, quando chiesi di realizzare proprio nel cuore dell’abitato il Museo dei Cistercensi di Calabria; anche nell’ottica di rafforzare il legame fra il paese e i ruderi dell’abbazia.
L’intervento previsto, mi dispiace molto evidenziarlo, denota una scarsa conoscenza delle vicende architettoniche dell’abbazia, di quanto già emerso con gli scavi archeologici degli anni Novanta, che hanno mostrato la bellezza e la qualità della pavimentazione in pietra del chiostro e di quella superstite in laterizio all’interno della chiesa. Denota inoltre una totale lontananza dallo spirito cistercense, una profonda disarmonia con il contesto, una visione misera e riduttiva del patrimonio culturale calabrese. Per non parlare poi dei problemi di gestione dell’area, che certamente si presenteranno con la tradizionale generosità calabrese.
Le idee progettuali, dunque, per quel poco che abbiamo potuto scorgere, sono in larga misura da rivedere. E mi auguro che la competente Soprintendenza possa quanto prima esprimersi, dettando le linee essenziali di un intervento che deve necessariamente tener conto dell’importanza del complesso monumentale, che è vincolato, e del fatto che la stessa Regione inserisce l’abbazia fra i Beni calabresi considerati di “carattere identitario”.
L’abbazia di Corazzo merita cura, merita una visione luminosa, merita la possibilità di un sogno, e siamo ancora in tempo a fermare tutto, a trasformare il progetto in qualcosa di prezioso, ragionato, lungimirante. Siamo ancora in tempo per discuterne: insieme.
Realizzarlo nella maniera prevista significherebbe condannare le meravigliose rovine dell’abbazia ad una confezione di vetri e metalli, per niente leggera. Una confezione che dovrò fare i conti con le condense e con le muffe; una confezione greve che certamente in futuro condizionerà ogni successivo intervento di restauro e impedirà di valorizzare il complesso architettonico nel suo insieme.
Come ho indicato altre volte, in più punti della struttura sono presenti numerosi e potenti accumuli di terreno alluvionale, che si sono depositati nel corso del tempo per l’azione del fiume o per quanto scivolato delle alture circostanti. Bisogna partire da questo. Dando respiro agli ambienti, avvicinandosi ad una percezione antica, recuperando i volumi e i sotterranei della chiesa, mettendo in sicurezza le murature, permettendo la visita nei tanti settori abbaziali, riproponendo l’antico legame con il vicino fiume, fonte di vita per l’abbazia e sorgente di ogni speranza.
Per poi ragionare, senza fretta, sul futuro. Un futuro che non riguarda solo gli abitanti di Carlopoli o della Calabria.
Lo ricordo ancora: è con il mondo cistercense che si può iniziare a parlare di Europa. E se Emilia Zinzi fosse ancora tra noi, ci racconterebbe di tutto questo con gioia e commozione. E ci indicherebbe certamente, con un energico sussurro, la giusta strada da seguire».
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