di Roberto De Santo
LAMEZIA TERME C’è un intero mondo che si è fermato a seguito del mini lockdown imposto dalla seconda ondata di epidemia da Coronavirus. È la variegata costellazione che comprende l’arte della rappresentazione nelle sue diverse sfaccettature: teatri, cinema e musica. Un’intera filiera della cultura che si è arrestata davanti allo spettro del nuovo incubo planetario: la pandemia. Un comparto che non è solo un segmento del sistema produttivo ma è decisamente fondamentale per garantire la trasmissione di valori universali. Condivisione attraverso spazi reali. Luoghi dove potersi esibire e far percepire dal vivo suoni, gestualità, movimenti. In una parola emozioni. Tutto questo con il decreto – firmato dal premier Giuseppe Conte lo scorso 24 ottobre per cercare di arrestare la curva dei contagi da Covid-19 – è stato congelato. Il dilagare dell’epidemia da Coronavirus in Italia ha spinto il premier a chiudere anche i luoghi che garantivano momenti di confronto e dunque di arricchimento culturale nel Paese.
Si sono così spente le luci di cinema, teatri ed in genere di tutti gli spazi dove, con grande fatica, si stava cercando di risalire la china dopo i mesi di blocco delle attività culturali nel nostro Paese. Un settore – nelle sue varie sfaccettature – che era stato già duramente colpito dai primi provvedimenti seguiti all’ondata di contagi del marzo scorso, lasciando a casa centinaia di artisti, lavoratori diretti e dell’indotto dell’intera filiera. Si calcola che il fatturato registrerà a fine anno una flessione di oltre 70 punti percentuali a causa proprio del fermo prolungato di sale cinematografiche, teatri, piazze e luoghi dove svolgere le attività artistiche. Con punte in alcuni settori come quello della musica dal vivo pari al 97%. Secondo quanto denunciato da Assomusica, l’associazione degli organizzatori e produttori di musica dal vivo che ha fornito questo drammatico dato nel corso dell’audizione nelle commissioni riunite di Cultura e Lavoro della Camera dei deputati. Per queste ragioni alcuni rappresentati del mondo dello spettacolo hanno manifestato – con l’iniziativa “Bauli in Piazza” tenutasi a Milano in Piazza Duomo lo scorso sabato 10 ottobre – per chiedere attenzione ad un settore messo in ginocchio dalla crisi.
Anche in Calabria il settore si è fermato gettando in una crisi ancora più profonda quanti lavorano, studiano e si impegnano per far crescere un comparto definito da tanti “il cibo dell’anima” e già da tempo, viceversa, considerato dalle istituzioni come settore secondario. Non fondamentale a far girare l’economia complessiva. Ed invece i numeri dicono che anche sotto questo profilo la filiera esiste e genera occupazione e reddito per centinaia di famiglie. Nel registro delle imprese delle camere di commercio calabresi risultano presenti al 30 settembre scorso (ultimo dato disponibile) – solo sotto la categoria attività creative, artistiche e d’intrattenimento – trecento aziende con oltre 400 addetti assunti nelle strutture. In gran parte operanti nella provincia di Cosenza dove, sempre secondo i dati delle Camere di Commercio, risultano registrate oltre il 40 per cento del totale delle aziende calabresi che lavorano in questo settore culturale. Qui si concentra, ovviamente, anche il maggior numero di addetti 145 pari ad un terzo del totale degli impiegati nel settore.
Si tratta per lo più di imprese e dunque lavoratori impegnati nelle altre attività di supporto alle rappresentazioni artistiche. Quelle che garantiscono maestranze e logistica alla realizzazione degli eventi. Seguono a ruota per numero di aziende e dipendenti il Reggino e il Catanzarese dove sono presenti rispettivamente il 23,3% e il 23% del totale delle imprese dedite a questo genere di attività. Ma sarebbero ancor di più le persone che a vario titolo ruotano intorno a questo mondo dello spettacolo che non si racchiude all’interno solo di aziende ma ricomprende anche figure professionali che spaziano orizzontalmente in diversi settori. Le stime dell’Inps, per la sola Calabria, annovera 2.736 persone che a vario titolo hanno lavorato nel corso del 2019 nell’universo mondo dello spettacolo di cui quasi la metà nel Cosentino. Dunque, come si diceva, questi numeri non riescono a ricomprendere il totale esatto di quanti nel settore lavorano per incentivare la crescita culturale del territorio. Che poi è la vera mission di chi opera nel mondo della arti figurative.
Un obiettivo ben ricompreso nelle parole del principe Lev Nikolàevič Myškin, il principale protagonista del romanzo “L’idiota” di Fëdor Dostoèvskij: «La bellezza salverà il mondo». Un messaggio mai come oggi attuale, in un momento storico in cui tutto sembra annichilirsi davanti all’avanzata della pandemia.
Per comprendere gli effetti delle chiusure legate alla diffusione dell’epidemia sul mondo dello spettacolo calabrese abbiamo incontrato Danilo Gatto, musicista, studioso e didatta di Catanzaro, che da quasi 40 anni si interessa di musica popolare, ambito nel quale si è specializzato sia come musicista che come ricercatore, perfezionando sul campo la conoscenza degli strumenti, del canto, e delle modalità proprie della musica tradizionale calabrese. Già componente del gruppo Re Niliu, con il quale ha partecipato ai più importanti festival di musica etnica del mondo, da Mosca a Parigi a Vancouver, Gatto ha fondato nel ‘95 il gruppo Phaleg, e successivamente l’Orchestra Popolare Calabrese. Attualmente insegna Etnomusicologia all’Istituto Tchaikovsky di Nocera Terinese.
Maestro, cosa significa fare musica in Calabria al tempo del Covid?
«La musica, che in sé è la cosa più evanescente che esista, è aggregazione, contatto prima di tutto fra i musicisti, fra i musicisti e il pubblico, tra il pubblico con sé stesso. Se tu gli togli questa dimensione comunicativa rimane una diretta televisiva, o una registrazione da ascoltare dentro casa. E poi c’è l’aspetto lavorativo, professionale, economico, che anche in Calabria ha causato molti danni, non solo a musicisti e operatori del settore, ma anche a tutto l’indotto con il sostanziale blocco di un’intera stagione. Si sono cercate soluzioni alternative come l’insegnamento a distanza o lo streaming, ma sono misure transitorie che dovranno riportarci nel più breve tempo possibile ad una normalità».
I timori per la ripresa dei contagi stanno provocando tanta angoscia anche tra i calabresi. Quale valore aggiunto può offrire la musica per contrastare questo malessere diffuso?
«Nelle prime fasi della chiusura (mi piacerebbe che, nel 700° anniversario di Dante, si trovassero delle parole appropriate invece dei vari lockdown o smart working) abbiamo assistito ai canti dai balconi, alle “Bella ciao” postate dalla Germania, Inghilterra, Tunisia, che hanno riconfermato ciò che noi sappiamo da sempre: la musica unisce, crea comunità, dà forza nei momenti difficili. Mettersi a cantare o a suonare durante una pandemia può sembrare ridicolo, ma si cantava anche sotto i bombardamenti, perché la musica è un potente moltiplicatore di energia e di senso. Se so che di tutto questo resterà traccia nell’arte e nelle composizioni dei nuovi autori, mi piacerebbe ne restasse anche in chi, una volta fuori dalle priorità di questa emergenza, avrà il compito di impostare la programmazione e le risorse per il futuro».
Le misure di contenimento cozzano con le necessità di spazi di aggregazione che la musica impone. Come sta affrontando tutto questo un musicista calabrese?
«Arrangiandosi, creando nuove relazioni, aprendo canali digitali, reinventando il proprio mestiere, in un contesto nel quale già in pochi potevano dire di “campare di musica”. La sola dimensione concertistica peraltro non è mai stata sufficiente, se non accompagnata anche dall’insegnamento, o da collaborazioni con altre forme d’arte».
La musica popolare calabrese contiene tanti momenti di sofferenza che ha vissuto la popolazione, trova riscontri con la fase storica che stiamo attraversando?
«Nella musica di tradizione orale, che è legata soprattutto alla civiltà contadina, c’è un’intensità espressiva che non ha niente da invidiare al blues o ad alcune pagine dei grandi compositori europei. Esse sono tuttavia poco conosciute, perché negli ultimi anni è prevalsa una riproposta edulcorata, leggera, molto legata all’intrattenimento da piazza e con poca attenzione ai contenuti. E con ciò non intendo soltanto i testi verbali, ma il modo stesso di usare la voce o la chitarra battente, che hanno una carica drammatica e dirompente di per sé. Mi piacerebbe che venisse recuperato questo aspetto, molto sottovalutato anche perché “difficile” sia da imparare che da tradurre in spettacolo».
Al di là del momento storico, quali sono le difficoltà che si incontrano in Calabria per chi abbia voglia di intraprendere una carriera musicale o proporla?
«Le difficoltà sono rappresentate dalla mancanza di continuità, di programmazione, di spazi e risorse sufficienti, che se in apparenza sono tante, in effetti non raggiungono mai gli obiettivi che si propongono. Basti pensare ai bandi che ti chiedono di programmare in ottobre gli eventi non della stagione successiva, ma di quella appena passata».
Quali misure dovrebbero essere attivate dalla politica per aiutare la musica popolare calabrese a crescere?
«Apparentemente mai come in questi anni la musica popolare ha avuto così tanta attenzione e spazio, con festival e rassegne quasi in ogni paese. Ma la realtà è ben diversa, il livello a mio giudizio è estremamente basso e senza alcun retroterra o progetto culturale che non sia vendere più salsicce. Spicca in questo panorama l’apertura dei corsi di Musiche Tradizionali al Conservatorio Tchaikovsky di Nocera-Catanzaro, con la possibilità di conseguire un diploma accademico in organetto, zampogna, chitarra battente, lira calabrese, fisarmonica o bandoneon. Questa è veramente una piccola grande rivoluzione, perché per la prima volta gli strumenti e il repertorio tradizionali vengono messi sullo stesso piano di altri strumenti e linguaggi espressivi, come il jazz, il pop e la stessa musica classica. Dopodiché le istituzioni, ad ogni livello, dovrebbero avere la capacità di dialogare e ragionare in una dimensione regionale come minimo, avere una visione (magari non come quella di Muccino), e capire che i piccoli orticelli, se hanno consentito ai piccoli referenti di sopravvivere, hanno completamente affossato la possibilità di progettare un futuro nel quale tutte le altre regioni meridionali, dalla Sicilia alla Puglia, si sono dimostrate molto più lungimiranti». (r.desanto@corrierecal.it)
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