Le rovine (le chiamerò così anch’io, romanticamente) dell’abbazia di Corazzo mi sono assai care. Sin da ragazzo, per via di uno zio amante della storia calabrese (Giacinto Montesanti), quei muri sberciati, allora quasi interamente incappucciati d’edera, quegli archi che inquadrano una prospettiva favolosa, quelle pietre incastonate nelle pareti del chiostro, la navata alta e profonda della chiesa, la valle, con le sue praterie smaglianti, gli oscuri ambienti ipogei delle cantine e dei depositi, hanno esercitato su di me un fascino pieno di mistero. È la classica emozione che suscita nell’osservatore il paesaggio con rovine, così ben descritta, fra gli altri da Goethe e da Ruskin. Pian piano, poi, ho conosciuto la storia del luogo, ho camminato nella valle del Corace, ho pensato alle vite leggendarie che vi si erano susseguite, ho compreso il legame, all’epoca quasi reciso, fra quelle rovine e Carlopoli, il paese poco distante. Leggevo con commozione gli scritti di Salvatore Piccoli, che in solitudine conservava la memoria del luogo. Cercavo nelle rovine qualcosa che era già dentro di me: l’amore per la storia, per il passato, per l’antico. In occasione delle recenti polemiche sul progetto di restauro mi sono detto, però, che il mio affetto per Corazzo non doveva divenire l’alibi per una sorta di comoda neutralità. E così ho deciso di espormi.
Nel 2017, in occasione di una cerimonia di premiazione a Soveria Mannelli, diedi voce a Corazzo in una lettera al premiato, Salvatore Settis, che avevo guidato durante la sua prima, ammirata visita alle rovine. In quella lettera l’abbazia raccontava al famoso archeologo di come un manipolo di persone del luogo, da qualche tempo, avesse deciso di non lasciarla più sola, di accudirla, di tornare a farne un centro del mondo, nel senso inteso dallo storico delle religioni Mircea Eliade.
Nell’anno successivo, ricordando una conversazione tenuta qualche tempo prima nel chiostro, insieme a Francesco Cuteri, per la presentazione di un libro di Massimo Iiritano su Gioacchino da Fiore, pensando a quelle brutte sedie di plastica sulle quali eravamo stati seduti, donai al Comune di Carlopoli cinquanta sedie artigianali in legno per le iniziative a Corazzo. Quelle sedie sono oggi allocate nella biblioteca di Carlopoli, in attesa che Corazzo possa disporre di un magazzino dove conservarle insieme alle attrezzature necessarie per gli eventi culturali.
Già, perché quelle persone delle quali parlo nella lettera al prof. Settis, altri non sono che uomini e donne volenterosi di Carlopoli e dei paesi vicini, che proprio fra i ruderi dell’abbazia hanno organizzato, negli anni, eventi piccoli e grandi: da concerti e conferenze a “Una montagna di pace”, una sorta di festa di più giorni, in cui si alternavano iniziative culturali, dibattiti, stand enogastronomici e artigianali, concerti dal palco. Tutto questo per dire che le rovine di Corazzo, oltre alla naturale eloquenza della loro storia, proprio per merito di quelle persone, avevano ricevuto nuova vita, e che, grazie a quegli eventi, il legame reciso fra uomini e luogo era stato finalmente riannodato.
Così, i muri sono stati liberati dall’edera, i prati sono stati ripuliti dalle erbacce, una piccola coltivazione di piante aromatiche è sorta nelle vicinanze. L’abbazia è divenuta anche tappa di “cammini gioachimiti” e di un “Cammino di Gioacchino da Fiore”. Con centinaia di persone che ogni anno vanno ad ammirare le rovine. Sino ad arrivare al recente annuncio dell’ormai ex amministrazione comunale di Carlopoli di una idea progettuale che ha fatto montare la polemica.
A questo proposito, va ricordato che la Convenzione Europea del Paesaggio stabilisce che il paesaggio è un bene identitario delle comunità che lo abitano. Sicché è innanzitutto a quelle comunità che occorre rivolgersi per verificare preventivamente la fattibilità di interventi che possano incidere sul paesaggio. Mi pare indubbio, allora, che la comunità di Carlopoli è il primo soggetto al quale andrebbe chiesto cosa è oggi, per chi abita quel luogo, l’abbazia di Corazzo; e cosa si vorrebbe che essa diventasse. Le risultanze di questa consultazione dovrebbero essere poi consegnate ai progettisti, che, come ha chiarito più volte Salvatore Settis, non devono “atterrare” da Parigi o da Londra nella valle del Corace per proporci i loro sogni artistici o le loro ossessioni psichiche. Chiarisco: questo non significa che se la comunità di Carlopoli, presa da improvvisa follia, decidesse di creare in mezzo a quei ruderi un campo di calcetto o una scenografia per matrimoni, questa sarebbe la strada obbligata! Tutt’altro. La Storia, il genius loci sapranno indicare a progettisti sensibili, attenti e soprattutto umili la strada da intraprendere. Mettendo insieme più esigenze: quella “conservativa”, sacrosanta, di cui parla Francesco Cuteri (qui il contributo); quella sanamente “eversiva” di cui ha parlato Emilio Leo (qui il contributo). Fra le due, però, inserirei anche l’esigenza antropologica e culturale che nasce esattamente da cosa è divenuta, negli ultimi decenni, l’abbazia di Corazzo, senza che alcuno – neppure fra i più contrari al progetto in discussione – abbia mai espresso dissensi o perplessità per i decibel di un concerto amplificato, per una tensiostruttura impattante, per l’atteggiamento godereccio del pubblico. Tutti peccati veniali, che possono essere perdonati, a patto che si sappia perdonare però anche qualche ingenuità delle controparti. Quelle rovine non sono state trattate, insomma, in modo museale, come qualcosa da porre sotto una teca di vetro. La comunità locale, invece, ha attribuito loro forti connotati identitari, storici e relazionali, come direbbe Marc Augé per distinguere questo “luogo” da tanti “non luoghi” che quelle funzioni hanno ormai perduto. Voglio dire che la comunità ha cercato di far rivivere il suo luogo simbolo – Corazzo appunto – considerandolo un iconema, ossia un segno distintivo del suo paesaggio, ma anche per ri-costruire l’eminenza e l’attrattività di tutto il territorio circostante. In questo senso, il genius loci, l’identità estetica del luogo – come direbbe Paolo D’Angelo – l’autorealizzazione del luogo – come direbbe, a sua volta, Christian Norberg-Schulz – avrebbero già fornito elementi di discussione che non possono essere trascurati. Fuor di metafora: mi sento di poter affermare che, nel caso specifico, non può valere l’auspicio strettamente conservativo delle rovine (sino alla loro naturale consunzione) di John Ruskin, che ho udito evocare da più parti. E tuttavia condivido la grande cautela di tutti coloro che invocano una scelta più dibattuta e condivisa. Purché tutto questo non divenga un alibi per non fare nulla. E purché la politica, infine, si assuma le sue responsabilità. In questo senso, i precedenti amministratori di Carlopoli, a torto o a ragione, quella responsabilità se l’erano assunta tutta.
*avvocato e scrittore
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