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«La disabilità al tempo del coronavirus»

di Candida Tucci*

Pubblicato il: 04/11/2020 – 16:17
«La disabilità al tempo del coronavirus»

La deresponsabilizzazione dello Stato fa riaffiorare vecchi retaggi culturali…
Il lockdown spazza via il Welfare State facendo riaffiorare il carattere familistico del welfare sociale e così che responsabilità, cura e assistenza delle persone con disabilità ritornano in capo alla famiglia in modo esclusivo. Dacchè è scoppiata la pandemia, in Italia, la politica nazionale nei confronti della disabilità ed in modo specifico delle comunità diurne di accoglienza per le disabilità è stata caratterizzata da un atteggiamento iniziale per così dire ‘inerziale’ per passare poi a scelte drastiche di chiusura totale dei presidi di accoglienza diurni per arrivare solo in un secondo momento a pensare a non meglio definite ‘forme alternative di assistenza’ la cui realizzazione viene però rimessa alla volontà delle singole amministrazioni locali. Tali forme alternative, nella pratica, hanno trovato scarsa attuazione sui perché bistrattate tra le incertezze – dovute anche ad una dilagante informazione allarmante e panicosa – dei diversi centri decisionali alla cui esclusiva discrezionalità erano rimesse. Lontani dalla volontà di sindacare quelle scelte, quello che interessa analizzare sono le conseguenze che esse hanno avuto sulle disabilità e sulle vite delle persone coinvolte. In fase di stretta emergenza, lo Stato ordina la chiusura dei presidi di assistenza piuttosto che riprogrammarne le organizzazioni per ridurre i rischi di contagio e continuare a garantire assistenza, dimenticando che nel momento del bisogno il sistema di welfare va potenziato e non ridotto. La generale disattenzione all’intero mondo della disabilità emerge anche dalle misure decise per rendere fruibili le attività che man mano andavano riaprendo, riservate al c.d. popolo dei normodotati ma non anche a disabili e famiglie.
Con il decreto Cura Italia si adottano alcune disposizioni per la continuità dell’assistenza e la retribuzione degli enti gestori ma si delega agli enti sussidiari l’attuazione delle misure necessarie. Scelta rispettosa della suddivisione delle competenze e, quindi, legittima in tempi ordinari ma discutibile in una situazione straordinaria in cui ci si è trovati a fronteggiare un virus che non rispetta i confini nazionali e men che meno la ripartizione delle competenze amministrative.
La funzione unificatrice ed uniformatrice dello Stato costituzionalmente sancita nell’art.117 scarsamente esercitata in fase ordinaria, viene addirittura azzerata in fase emergenziale e ciò genera un diffuso torpore amministrativo successivamente al decreto Cura Italia anche degli enti sussidiari, frastornati tra ciò che possono ‘osare’ e ciò che gli è inibito in fase di emergenza sanitaria. Difatti ne consegue, ancora una volta, l’immagine di una Nazione variegata dove l’assistenza– intesa anche come non abbandono – viene rimessa alla volontà, capacità (nonché) coraggio dei singoli enti gestori che si rimboccano le maniche e non si negano alle loro responsabilità. Per il Welfare, lo Stato non rivendica nei confronti delle Regioni, la gestione accentrata come invece fa – con veemenza – per la Sanità. Dimostrando di dimenticare l’articolo 117 della Costituzione ma anche di ricordare il 120 solo a sprazzi!!! La frammentazione organizzativa, caratteristica cronica delle politiche di welfare, si amplifica ulteriormente nel periodo pandemico facendo riaffiorare – tristemente – il carattere sanitario più che sociale del welfare in tutti i provvedimenti nazionali e locali che mirano quasi esclusivamente alla cura fisica piuttosto che anche all’assistenza. Prova di come ancora oggi l’assistenza alle disabilità sia considerata di minor rilievo rispetto alla cura della salute in senso stretto.
…in Calabria il sistema di assistenza è stato colpito prima che dalla pandemia da una riorganizzazione che ha catapultato nel caos i servizi di assistenza ancor di più di quello che arriveranno a fare le annacquate scelte governative con lo scoppio dell’emergenza sanitaria.
La nuova riorganizzazione prevista dalla DGR 503 del 2019 – sulla cui incongruità e macroscopica deficienza ci siamo già spesi tanto nei lunghi mesi che hanno preceduto la sua approvazione– è in vigore dal 1 gennaio 2020 e la competenza sulla gestione dei servizi di assistenza è passata dalla Regione agli Ambiti territoriali cogliendoli completamente impreparati prima ancora che la pandemia completasse l’opera. Tant’è che questi mesi in cui il sistema del welfare avrebbe dovuto fare da stampella ad una sanità malata di decennale commissariamento e chiamata a fronteggiare un’emergenza pandemica senza precedenti, ha finito per essere brutalmente menomato anzicchè potenziato e sostenuto. Gli ambiti territoriali non hanno contrattualizzato né pagato gli enti erogatori delle prestazioni nonostante la Regione a maggio 2020 abbia trasferito loro ben il 60 % della spesa annua necessaria.
L’utenza tra cui disabili, minori, donne in difficoltà ed anziani che in questi mesi ha richiesto prestazioni sociali, si è vista negare l’accesso al sistema di protezione sociale perché i comuni non li hanno autorizzati. Una riorganizzazione folle quella della DGR 503/2019 che deflagra in Calabria nel momento più buio.
Nei lunghi mesi da inizio anno ad oggi attraversando la drammatica emergenza pandemica ancora in atto, in Calabria si consuma uno scenario surreale: gli ambiti territoriali discutono ( al sicuro in smart working…) per esempio quali e quante prestazioni sociali devono pagare alle strutture per l’anno 2020 senza accorgersi che il 2020 sta già finendo (per fortuna visto quello che ha portato)mentre le strutture stanno reggendo il sistema di Welfare in Calabria affrontando sul campo e non in smart working anche il tragico impatto dei focolai che non ha risparmiato qualche realtà per anziani al pari di famiglie, scuole e quant’altro.
In questo quadro che farebbe sorridere se non fosse drammaticamente vero, ancora una volta maggiormente penalizzati sono i centri diurni per le disabilità colpiti prima dallo Stato con la chiusura forzata da marzo a giugno e poi dagli Ambiti territoriali che, arbitrariamente e contrariamente alle previsioni nazionali del decreto Cura Italia, vorrebbero decurtare loro i rimborsi per i mesi di chiusura dovuti per il mantenimento in vita delle attività in attesa della riapertura.
In Calabria il futuro dei centri diurni di assistenza per i disabili è pieno di ombre e si va rapidamente verso l’azzeramento totale di una fetta importante di assistenza con conseguenze gravi sulle famiglie. Sarà difficile continuare a mantenere in vita queste attività e garantire assistenza alla luce delle nuove normative che impongono distanziamenti quindi riduzioni delle capacità ricettive e nuovi costi. La storia ancora una volta fa quadrato perché le comunità diurne di accoglienza per le disabilità sono state da sempre ingabbiate in normative riduttive e poco attente che negli anni ne hanno disincentivato la nascita e resa difficile la sopravvivenza. Deludendo gli auspici della legge Basaglia che, già nel 78, promuoveva la nascita di comunità diurne di assistenza del malato di mente capaci di non interrompere il fondamentale legame con il nucleo familiare come momento determinante nel percorso riabilitativo. E rimangono affascinanti quanto illusori gli obiettivi delle programmazioni istituzionali sull’ avvio dei tanto desiderati percorsi di autonomia del disabile alla vita indipendente se, come sempre, non conseguono azioni concrete.
Le scelte organizzative adottate dagli enti comunali della nostra regione per la gestione dei servizi di assistenza in generale e di quelli diurni per le disabilità in particolare, comporterà una regressione drammatica nel modo dell’accoglienza e delle disabilità. E’ urgente che la Regione Calabria intervenga a correggere il tiro di queste storture mediante un’attività di affiancamento e, se è il caso, anche sostitutiva nei confronti degli ambiti socio assistenziali, prima che sia troppo tardi.

*Presidente Filiera Regionale Sanità Confapi Calabria

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