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«I 7mila tirocinanti ci sono, il lavoro invece no»

di Giusy Scarriglia*

Pubblicato il: 09/11/2020 – 13:49
«I 7mila tirocinanti ci sono, il lavoro invece no»

Sono 7000 i tirocinanti calabresi, impiegati nei tribunali, in enti pubblici e privati del territorio che dal 2017 prestano la loro attività, ma vi sono anche tirocinanti che da 10 anni sperano nella loro stabilizzazione. La manifestazione di interesse era rivolta a disoccupati ex precettori di mobilità in deroga, il cui scopo è la realizzazione di percorsi di politica attiva secondo le modalità di tirocinio di orientamento, formazione e inserimento/reinserimento, finalizzati all’inclusione sociale in settori che in potenza dovrebbero essere più produttivi a livello lavorativo o comunque di natura emergente nell’ambito della green e blue economy o servizi alla persona , servizi socio sanitari, valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale, sulla base di accordi che prevedevano lo stanziamento di fondi Pac che la Regione Calabria avrebbe dovuto utilizzare per la realizzazione di queste politiche attive.
All’interno della manifestazione di interesse, è ben chiaro lo scopo per la quale la stessa venne posta in essere e cioè per la formazione e successivamente l’inserimento e il reinserimento nel mondo del lavoro, per far fronte alla crisi emergenziale che da anni colpisce la Calabria. I tirocinanti stanno formandosi ampiamente ma in questo progetto manca lo step successivo, che è la creazione di posti di lavoro. I posti di lavoro vanno costruiti con progetti sensati, riqualificandoli, adattandoli e che prevedano una tutela fin ora mai realizzatasi per queste persone, poiché questi soggetti non hanno contributi previdenziali ed assistenziali, ma non hanno nemmeno una categorizzazione, semplicemente perché mancano di una vera e propria contrattazione.
Allo stato attuale, questi 7000 tirocinanti dimostratosi essenziali nelle mansioni da essi svolti, sono fantasmi; non hanno una prospettiva futura di stabilizzazione e questo già cozza con lo scopo per il quale è nata la manifestazione di interesse e collima con gli obiettivi di politica di inclusione sociale, che diventa piuttosto di esclusione sociale.
Dovremmo chiamarli lavoratori, ma un prestatore di lavoro, in quanto soggetto debole, nel nostro sistema, che si atteggia come garantista, dovrebbe essere tutelato; qui di tutele se ne son viste ben poche!
Il compenso che gli stessi percepiscono equivale ad un rimborso spese, non si discute quindi di una vera e propria retribuzione, che come ben sappiamo deve essere corrisposta al prestatore per l’attività lavorativa svolta. Vi è qui una falla nel sistema.
Dimostrazione più evidente della mancanza di tutela nei loro riguardi non poteva che essere la pandemia da Covid-19, che da marzo ha ufficialmente colpito il paese.
I soggetti in essere hanno percepito fino ad oggi una sola indennità di 500 euro, lasciandoli scoperti per tutti gli altri mesi e per i mesi che verranno; alcuni di loro non hanno mai ripreso il tirocinio dall’inizio della pandemia e quindi non spetta agli stessi il contributo mensile per le mansioni che dovrebbero svolgere ma che per cause di forza maggiore non possono, inoltre, qualora quelli rimasti attivi o ripresi, dovessero interrompersi, gli stessi non avrebbero tutele.
Ma questi fondi, stanziati ab origine e quindi già destinati alla realizzazione di siffatto tipo di politiche attive, rimangono in un limbo, in attesa di quale altro scopo? (che altro non potrebbe essere). Cosa oltremodo più grave, è la mancata coerenza dell’obiettivo per il quale nasce questo progetto, che ribadendo, consiste nella formazione, orientamento e il successivo inserimento/reinserimento sul lavoro ma in verità , nella fattispecie concreta, alcuna volontà si è mostrata, orientata in tal senso.
Potremmo parlare di violazione dei diritti di questi 7000 tirocinanti? Verrebbe piuttosto semplice chiamare in causa il diritto al lavoro, alla salute, l’eguaglianza e tutta una serie di tutele e diritti annessi, che vengono meno, infine ce n’è uno, che non solo è inalienabile ma nemmeno equiparabile a quelli appena menzionati: la loro dignità.
Si possono così definire lavoratori in nero legalizzati da un sistema che prima li crea e poi li distrugge. Persone sfruttate fino a quando il loro servigio risulta essere essenziale e a costo zero, giusto per giustificare i fondi investiti e poi abbandonati quando si tratta di stabilizzarli e garantire la creazione di posti di lavoro.
Gli stessi soggetti, di sicuro rappresentano uno specchio per le allodole, un bacino di voti, facili da plagiare, da convincere e da gestire. Risulta semplice invadere le menti con illusorie aspettative, che ogni volta vengono disilluse.
In questo periodo in cui il mondo ha rallentato ogni cosa e in cui sembrano esservi solo dati sconfortanti, che non ci danno la possibilità di vedere una luce in fondo al tunnel; abbiamo dalla nostra parte il tempo, per fare riflessioni, su una Calabria rossa, ma non di passione; una Calabria di allarmismi, che potrebbe avere l’opportunità di fare un salto di specie, che sia in grado di sopravvivere e adattarsi ai cambiamenti, di sfruttare l’economia circolare ed ecosostenibile, grazie alla bellezza dei territori che ci offre. Una Calabria nella quale ti ritrovi, nello stesso giorno ad ammirare il mare, poi subito dopo ad approfittarne del clima fresco della montagna, senza tralasciare la collina e dei profumi culinari che ogni posto ti regala. Una Calabria, che ha bisogno di incrementare il sistema sanitario, che porterebbe alla creazione di nuovi posti di lavoro; una Calabria che per una volta deve provare a scegliere e deve preferire la stabilizzazione di posti di lavoro e non sempre il precariato. Deve scegliere di restare senza abbondare i suoi abitanti. Una Calabria per cui ne vale la pena!
*figlia di un tirocinante calabrese

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