In un tempo in cui la diffusione della conoscenza, tramortito il vincolo logico-sintattico, è appannaggio dei social in cui imperversano gli specialisti dell’aria fritta e delle trasmissioni tv che amplificano la litigata morbosa esibendo il lato peggiore dell’homo sapiens, che senso ha un libro come “L’invenzione del ribelle” (Città del Sole edizioni) con sottotitolo: “Vita tortuosa di Bruno Misefari – 1892/ 1936 – cosiddetto anarchico di Calabria” e il cui autore, Giuseppe Tripodi, nulla concede, in ben 348 pagine il cui inflessibile argomentare è suffragato da allegate prove documentali, all’arte della dissimulazione? Se la consecutio temporum e l’empatia creatrice sono azzerate e se su tutto prevale l’indifferenza ai contenuti e la chiacchiera gridata che impedisce la comprensione delle dinamiche reali che muovono la società, qual è la ragione che spinge a mettere in dubbio, fino a dissacrarla, l’iperbole mitologica che connota il vissuto dell’ “anarchico di Calabria”?
E qual è la ragione che fa passare il cursus honorum del “romantico cavaliere dell’umanità” (così lo definitiva la moglie svizzera Pia Zanolli) che sulla sua tomba nella roccia di Palizzi (suo paese natale) fece scolpire un superbo “M’è questa notte eterna assai meno grave/ del dì che mi mostrò viltà di forti/ e pecorilità di plebi schiavi”, sotto le forche caudine del principio di realtà?
Indubbiamente il fascicolo del Casellario Politico Centrale dell’Archivio di Stato di Roma. Da cui risultano (il saggio di Tripodi riporta più lettere di Misefari a Mussolini e al sottosegretario all’Interno Michele Bianchi vergate non col tono dell’“ideologo sognatore di fratellanza universale” ma – inclusa la dichiarazione di abiura dell’impegno politico nelle fila dell’anarchia – per chiedere protezioni politiche per la sua “Società vetraria calabrese” e l’impresa quarzifera di Davoli rivelatasi al postutto una truffa ai danni dell’industriale svizzero John Spinner) rapporti ambigui – stranamente ignorati (per sciatteria o malafede?) dai costruttori del mito (accademici e scrittori vari) dell’anarchico individualista e romantico calabrese – e compromissioni palesi con i fascisti negli anni che vanno dal 1926 al 1936, che, chiosa Tripodi, “ascrivono Misefari di diritto al ruolo degli eterni ‘spaghettanti dello spirito’ che rivolgevano al regime uno stillicidio quasi petulante di richieste…”
In secondo luogo, quest’operazione rigorosa di discrimine tra realtà e manomissioni del tracciato umano e politico di Misefari – persino grottesche quando per accreditare una “leggenda aurea” si enfatizzano fatti mai accaduti (per esempio la segregazione di Misefari nel carcere di Acireale contraddetta dalla cronologia e non riportata da alcun documento ufficiale) o per propalare il mito dell’anarchico tutto d’un pezzo si inventa un processo a Misefari davanti al Tribunale Speciale con sentenza di non luogo a procedere – che l’autore conduce fino alle estreme conseguenze e da cui balzano incongruenze clamorose e “falsi grossolani”, è dovuta alla resilienza dell’homo sapiens. Che, a dispetto della tempesta perfetta dell’imbecillità abbattutasi sull’umana specie, recalcitra, sbuffa, si adonta. Non ci sta e infine, contro Golia, ma in un contesto storico meno fortunato per i Davide contemporanei, punta la fionda e, costi quel che costi, prova a rimettere in circolazione il principio di non contraddizione. E, in questo caso, appurate alcune scomodissime verità, invece di “sopire, troncare …”, come consigliava il Conte zio al padre provinciale per evitare che “trovando il fondo vengan fuori cent’altri imbrogli”, Tripodi acumina lo sguardo sulle carte. Evita ogni latinorum e non resta a mezzo con le parole. Anzi: prende di petto (nel corso di un decennio di ricerche) l’intera vicenda, la setaccia e distrugge ogni leggendaria rappresentazione dell’anarchico calabrese. Dà un giudizio non meno severo sia sull’estro imprenditoriale che sul carattere dell’uomo (financo dedicandogli un intrigante “post scriptum psicanalitico”) e a pag. 237 scrive: “Ha condotto una vita sempre sull’orlo precipite dell’indigenza con le fiammate dell’ultimo decennio (automobili, viaggi e spese rilevanti). Probabilmente una vita sprecata e dissipata all’ombra della grandiosità allucinata e coltivata sulle spalle degli altri”. Salva, tuttavia, dell’ingegnere minerario morto “non da eroe su uno dei fronti della rivoluzione” ma all’età di 44 anni per un carcinoma cerebrale, le parti della sua vera storia temprate in una realtà che l’ha visto scontrarsi con più difficoltà. E gliene dà atto: “Misefari fu oggetto per tutta la sua vita di assillanti attenzioni da parte degli organi della polizia, anche e soprattutto nel periodo precedente l’avvento del fascismo”.
“L’invenzione del ribelle” non mancherà di suscitare contrarietà. E, vista la confusione in cui oggigiorno ballano le nostre esistenze lacerate, forse sarebbe stato meglio, al cospetto del mito dell’anarchico calabrese consolidato nonostante il cumulo di contraddizioni, “non aderire né sabotare”.
Resta assodato, comunque sia, che a Bruno Misefari, per essere un eroe, come durante la dittatura ce ne sono stati tanti, è mancata la parresia: la generosità di gettare in faccia al tiranno la verità quando più ce n’era bisogno. Sarà perché – come dice lo storico Paolo Alatri – il fascismo aveva prodotto guasti profondi nel corpo vivente della nazione, fatto sta che la voce del cosiddetto “anarchico di Calabria” contro la dittatura è mancata.
*giornalista
x
x