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«Sono tornati gli àscari»

di Bruno Gemelli

Pubblicato il: 18/11/2020 – 19:02
«Sono tornati gli àscari»

Nella pubblicistica corrente ci s’imbatte qualche volta nel termine àscaro. Parola desueta, ma di largo uso nel secolo scorso.
Chi era l’àscaro? Un soldato eritreo già aggregato alle truppe coloniali italiane. Aggiunge la Garzanti: «nel linguaggio politico, chi non ha un proprio programma, chi svolge un ruolo gregario: gli ascari parlamentari».
Riassume la Treccani: «àscaro (o àscari) s. m. [dall’arabo ῾askarī “soldato”]. – Soldato indigeno dell’Eritrea e della Somalia (ma anche dell’Arabia merid.), che faceva parte delle truppe coloniali nelle ex-colonie italiane. Nel linguaggio parlamentare dei primi decennî del sec. 20°, nome dato in tono spreg. ai deputati delle maggioranze privi di un preciso programma o indirizzo politico: in Parlamento diventò uno dei tanti a. taciturni, una macchina per votare (Gramsci)».
Il più grande esperto italiano della materia è stato Angelo Del Boca, maggiore storico del colonialismo italiano, che ha scritto anche il saggio, “Il colonialismo italiano tra miti, rimozioni, negazioni e inadempienze”.
Lo stesso Del Boca scrisse: «Al termine della Seconda Guerra Mondiale le Nazioni Unite affidano all’Italia il protettorato sulla propria ex colonia mediante lo strumento dell’Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia (AFIS) che termina nel 1960. Durante gli anni Cinquanta le relazioni tra uomini italiani e donne somale sono numerose: da queste unioni nasce una prole meticcia che ha destini differenti e la cui vicenda rappresenta una delle eredità del passato italiano in Africa. Da questo meticciato italo-somalo sorge un’associazione che chiede il riconoscimento di tutte le sofferenze subite da una parte della comunità meticcia e allo stesso tempo preme per una riflessione collettiva sulla memoria storica del periodo dell’AFIS».
Anche Ennio Flaiano, nel “Tempo di uccidere ” (poi fu fatto un film diretto da Giuliano Montaldo), premio Strega e unico romanzo dell’autore, ricostruisce l’ambiente dell’Africa orientale. Questo è il risvolto di Adelphi: «Quando la campagna sarà finita non po­chi si precipiteranno a scrivere dei libri» annota Flaiano nel febbraio del 1936, men­tre, sottotenente del Genio, partecipa alla guerra d’Etiopia. «Già immagino il con­tenuto e i titoli: “Fiamme nel Tigrai”, “Africa te teneo”, “Tricolore sull’Amba”!». Non a caso, attenderà dieci anni prima di rica­vare da quella sofferta esperienza – fatta di sete e stanchezza, caldo e paura – un ro­manzo. Un romanzo sconcertante, tanto più in pieno clima neorealista, che ha come sfondo non la «terra ideale dei films Para­mount», ma il paese triste, ingrato, ambi­guo, sfuggente delle iene (e che dunque cela di necessità «qualcosa di guasto»), e al centro una vicenda «assolutamente fan­tastica»: un delitto futile e fatale, che scate­na in chi l’ha commesso un corrosivo deli­rio. E gli trasmette il morbo di un «impe­ro contagioso», di un senso di colpa in­scindibile dal rancore, di una pietà com­mista a disprezzo per un mondo ignoto, l’Africa – «lo sgabuzzino delle porcherie», dove gli occidentali vanno «a sgranchirsi la coscienza».

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