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«Cosenza, una provincia “senza rigettu”»

di Giuseppe Sommario*

Pubblicato il: 30/11/2020 – 13:19
«Cosenza, una provincia “senza rigettu”»

UNA TERRA SEGNATA DALLA MOBILITA’
Cosenza è la più popolosa ed estesa provincia calabrese (sesta in Italia, per estensione; seconda a Sud, dopo Foggia), e, con i suoi 150 comuni, è la prima provincia calabrese per numero di comuni. La provincia fu istituita nel 1861, all’indomani dell’Unità d’Italia, e coincide grosso modo con quella che dal Medioevo e fino all’Unità d’Italia fu chiamata Calabria Citeriore. Bagnata dal mar Tirreno ad ovest e dallo Jonio ad est, confinante a nord con la Basilicata e a sud con Catanzaro e Crotone, la provincia occupa la parte più settentrionale della regione. Il territorio è caratterizzato dall’assoluta prevalenza di montagne (il Pollino e la Sila) e colline che “sfociano” a mare (228 km di costa), rendendo assai peculiare la conformazione geografica di quest’area. Tutto ciò ha evidentemente avuto un peso specifico notevole nella storia della provincia, influenzando fondazioni di borghi, partenze, traiettorie e giocando un ruolo decisivo nella costruzione dell’identità, dell’anima del popolo cosentino. In pratica, ci troviamo in presenza di un territorio assai frastagliato, che, nel corso dei secoli, ha favorito la formazione di tanti piccoli centri, i quali, in linea con quanto avveniva in tutta la regione, hanno a lungo vissuto una dimensione centripeta, di chiusura verso l’esterno. «Si viveva di poco, ma si viveva nel borgo. Poi, cadute le speranze risorgimentali, e stroncato il brigantaggio, anche i calabresi sono partiti per andare a “fara ’a Merica”».
E, fra le province calabresi, quella di Cosenza, oltre ad aver avuto il ruolo di apripista, è quella che ha dato il contributo più cospicuo alla diaspora calabra. Del resto, così com’è stato per tutta la Calabria, la storia, la cultura e l’identità stessa della provincia cosentina sono segnati dalla mobilità: una provincia mobile, errante, che nel corso del tempo è stata terra di passaggio, teatro di arrivi, e di invasioni. In pratica, «una terra che si definiva e si ridefiniva nei suoi tratti essenziali proprio grazie a presenze che venivano da fuori. Da fuori venivano i coloni greci, poi i romani, i bizantini, i normanni, gli arabi, gli spagnoli, i francesi. Da fuori arrivavano i santi, che segnano culti, riti, fondazioni di paesi»5. Da fuori arrivarono migliaia di profughi albanesi (gli arbëreshë) che, fra il XV e il XVIII, furono costretti a lasciare la propria terra per sfuggite dall’invasore ottomano. E da fuori arrivano oggi i migranti che stanno contribuendo a riabitare alcuni dei tanti borghi cosentini ormai in via d’abbandono. Dunque, una provincia mobile, che, con l’emigrazione, diventa mobilissima, errante senza sosta, “senza rigettu”, come direbbero le donne anziane.

CENTOCINQUANT’ANNI DI EMIGRAZIONE COSENTINA (1876-2019)
«Dopo i primi anni di “attesa”, una “fiumana” calabra si riversò nel mondo: dal 1876 al 1913, più di un milione di calabresi emigrò (un terzo dell’intera popolazione). Si tratta di cifre che danno bene l’idea di un mondo che esce fuori di sé, di una terra in fuga da se stessa: “Vado all’America!”. Quasi tutti si diressero in America. La provincia più colpita fu Cosenza: i paesi della costa e dell’entroterra jonico (Sibari-Rossano) si dimezzarono; si crearono a migliaia di chilometri di distanza dei veri e propri “paesi doppi”».
L’emigrazione cosentina seguì dunque l’andamento di quella calabrese, più tardiva rispetto al resto del Paese, però più duratura e maggiormente indirizzata verso le Americhe. Ma, pur seguendo la storia migrante della propria regione, Cosenza presenta tratti peculiari: 1) è la prima provincia a partire; 2) sarà sempre quella che vanterà la pattuglia più numerosa: più o meno il 40% dell’emigrazione calabrese è partita e parte oggi dai casali cosentini; 3) i cosentini (comprese le comunità albanesi) mostreranno una particolare affezione per l’Argentina, anche quando i corregionali prenderanno la strada del Nord America; 4) si parte in modo particolare dai centri più piccoli, dai paesini che come abbiamo visto costituiscono il nerbo della provincia.
Scorrendo i dati velocemente, emerge in modo netto sia il rapido moltiplicarsi delle partenze cosentine, che l’assoluta prevalenza di queste ultime rispetto al resto delle partenze calabre. Già nel quinquennio 1876-1880, su 11.040 emigranti calabresi, ben 10.112 partivano dalla provincia di Cosenza (una media annuale di 2 mila partenze); nei 5 anni successivi, il numero delle partenze cosentine triplicò, passando a 33.275 (40.250 il totale dei calabresi), per esplodere poi nel Novecento: quasi 100 mila (236 mila il totale dei calabresi) nel periodo 1906-1910: la media annuale decuplicò, balzando a 20 mila partenze.
In pratica, del milione di calabresi che, nel periodo 1876-1913, lasciò la regione, 425 mila erano cosentini: una diaspora nella diaspora, una valanga, ben oltre la metà di quella che è oggi la popolazione della provincia (700.385 abitanti), dopo una fase di studio, partì dai centri bruzi per sfuggire quasi sempre alla miseria che fu senza dubbio la causa principale dell’emigrazione cosentina. A partire erano «soprattutto maschi, giovani, perlopiù contadini, analfabeti e dialettofoni. Più che un sentimento di patria, erano legati al proprio paese, alle proprie radici: “affrancati da un destino terribile si avviano […] verso un futuro pieno di soddisfazioni, ma pur sempre col cocente ricordo della [propria terra] lontana, e lontana per sempre”».
Come detto, la meta preferita dei cosentini furono le Americhe e in modo particolare l’Argentina: «nel decennio 1876-1885, circa l’85% degli emigranti erano diretti nei paesi transoceanici e il 18% in Europa; nel decennio 1902-1911, i primi salirono al 98%». In pratica, su 100 cosentini che emigravano, 98 attraversavano l’Oceano, mentre solo 2 si fermavano in Europa. Siamo davanti un’emorragia che assorbì la crescita demografica che pure fu notevole dall’Unità alla Prima guerra mondiale.
Di assoluto rilievo sociale fu anche la crescita esponenziale dei matrimoni, che risultò sempre di gran lunga superiore alla media nazionale. Ad aumentare furono soprattutto i matrimoni degli uomini con meno di 20 anni e da 20 a 25 anni, i quali si sposavano prima di emigrare. Ciò perché attraverso i matrimoni si creavano alleanze familiari tra chi partiva e chi restava, o, in alcuni casi, favoriva l’unione fra contadini e piccoli proprietari terrieri. La pratica nuziale ha un significato per e nella comunità, contribuisce a rafforzare il senso di appartenenza di chi parte. In definitiva, si promette fedeltà alla sposa, ma ancor di più a tutto il paese, ai parenti, agli amici, ai compari, ai luoghi, alle le valli, alle chiese che si lasciano. Il fenomeno però ebbe anche conseguenza negative sull’assetto sociale, poiché, in 30 casi su 100, i giovani capi famiglia lasciarono le giovani spose sole (non di rado incinte): è il drammatico fenomeno delle “vedove bianche”18 che tanta parte ha avuto nei piccoli borghi cosentini (e nella tradizione musicale e teatrale della regione tutta). Inoltre, la partenza di così tanti giovani uomini favorì l’impiego nei campi di donne, anziani e ragazzi che così disertavano la scuola (in quel periodo il tasso di analfabetismo nella provincia sfiorava l’80%).
Quindi, se è indubbio che, a lungo andare, l’emigrazione favorì la scolarizzazione e l’italianizzazione, è altresì indubbio che portò e porta (oggi più di allora) conseguenze negative quali lo spopolamento di un’alta percentuale di paesi collinari e montani, l’invecchiamento della popolazione, la riduzione della popolazione attiva.
Nel periodo fra le due guerre mondiali, il popolo cosentino riprese a emigrare con veemenza: fra il 1919 e 1940, lasciarono la provincia 84.176 cosentini (più o meno il 40% del contingente calabrese: 209.798), toccando la punta massima di 22 mila espatri nel 1920. Ancora una volta a partire furono le classi rurali, le quali, deluse per le promesse non mantenute all’indomani della guerra, ripresero a solcare l’oceano diretti verso le Americhe e in modo particolare verso l’Argentina. In questo modo, si consolidarono le comunità che già si erano formate oltreoceano e che avevano già visto formarsi importanti associazioni di stampo “paesano” (più che provinciale o regionale). Da sottolineare che, nonostante il regime promuovesse con forza le emigrazioni interne (vari piani di bonifica) o la partenza verso le colonie africane, i cosentini preferirono la “fuga” (spesso clandestina) verso le comunità americane.
La ripresa dell’emigrazione cosentina, dopo il Secondo conflitto mondiale, appare quasi un fatto naturale, come, del resto, per la maggior parte delle aree dell’Italia meridionale. E, infatti, per arginare la sottoccupazione agricola e una generale condizione di arretratezza economica e sociale, i flussi riprendono con “ferocia” anche dalla provincia di Cosenza: nel periodo 1946-1988 si registrano oltre 350 mila partenze (800 mila circa il totale dei calabresi in uscita verso l’estero). Da segnalare, che, rispetto al resto del Paese, soprattutto fino alla metà degli anni Sessanta, i rientri dei cosentini sono pochi: non a caso la Calabria ha il tasso di rotazione più basso (22,3%), nettamente inferiore anche rispetto a quelle delle altre regioni meridionali (35,3%). Di fatto, rispetto al dato nazionale le partenze dalla provincia di Cosenza si protraggono e continuano con un andamento costante per un periodo più lungo (media annua di 10-11 mila espatri); ed anche quando, dopo il 1967, le uscite rallentano, e i ritorni cominciano ad essere più consistenti, il saldo migratorio raramente raggiungerà valori positivi.
A partire sono sempre in prevalenza maschi in età produttiva, spesso non sposati (a differenza di quanto avveniva in precedenza), solitamente erano braccianti agricoli o artigiani (sarti, falegnami, calzolai). In quanto alle destinazioni, strada facendo, subiscono delle variazioni: inizialmente (1946-1956) prevalgono: 1) come rotte transoceaniche, Australia e soprattutto l’amata Argentina; 2) come rotte europee, Francia, Svizzera e in misura maggiore Belgio; successivamente (1955-1971) scemano le partenze verso l’Argentina, crescono decisamente quelle verso il Canada, e il Venezuela, e soprattutto acquistano una rilevanza notevole i flussi diretti verso l’Europa continentale (specialmente verso la Germania, e, in misura minore, verso la Svizzera) e quelli diretti verso le altre regioni italiane che, di fatto, non si arresteranno più e, negli anni Ottanta e Novanta, quando le partenze verso l’estero si erano ridotte di molto, continueranno ad alimentare le comunità cosentine di Roma e quelle presenti nel Settentrione.
Nel decennio 1977-1988 l’emigrazione cosentina rallenta, i rientri pareggiano gli espatri (che sono meno di 40 mila: una media annuale di 3-4 mila partenze), cominciano ad arrivare i primi immigrati. Nonostante tutto, è interessante notare che: 1) sia pure in tono minore, i cosentini continuano a partire e a costituire il 40% delle partenze calabresi; 2) le catene migratorie cosentine continuano ad alimentare le comunità bruzie sorte e radicatesi ormai stabilmente lontano dalla Calabria Citeriore: pensiamo soprattutto a quelle nate in Germania, in Svizzera, nel Nord d’Italia e a Roma; 3) chi parte mantiene un legame intenso, quasi “patologico” con i luoghi d’origine. Legame che si manifesta sia attraverso la riscoperta e la valorizzazione della propria identità, che attraverso i frequenti ritorni, spesso in occasione delle vacanze estive o quelle del Natale.
Un discorso a parte meritano i rientri. Il mito del ritorno è sempre presente nell’orizzonte del migrante cosentino, sin dal momento della sua partenza. E quando, negli anni Settanta/Ottanta, le condizioni favorevoli favorirono il rientro di quasi 150 mila cosentini, questi non portarono quel cambiamento strutturale sperato. Infatti, se in altre aree (Molise, Abruzzo, Puglia) i rientri furono “produttivi”, portando sviluppo, innovazione e investimenti, nella provincia di Cosenza, i ritorni furono “improduttivi”: molti tornavano solo per trascorrere gli ultimi anni della vita e godersi la pensione nei borghi d’origine, pochissimi intrapresero attività produttive, tanti ripartirono qualche anno dopo.

ULTIME “SPARTENZE”
Negli ultimi 15 anni, la mobilità (estera e interna) è andando via via crescendo, assumendo oggi dimensioni preoccupanti. Se, infatti, negli anni Novanta del Novecento, a partire erano in pochi (soprattutto docenti e studenti universitari), negli ultimi 15 anni (2006-2019), i flussi in uscita dalla provincia di Cosenza sono cresciuti in modo vigoroso e costante: gli iscritti all’AIRE sono infatti aumentati del 70%, passando da 104.803 (popolazione residente: 730.395 abitanti)28 a 178.121 (popolazione residente: 700.385 abitanti)29; l’incidenza sulla popolazione è salita dal 14,3% al 24,6% (+10,23%), oltre la media nazionale (nel 2019 era dell’8,8%) e quella regionale (nel 2019 era del 21,2%).
Le fasce di età con più iscritti sono quelle in età produttiva (19-40 e 41-65), anche se nel corso degli anni sono cresciuti gli over 65 anni. Rispetto ai dati regionali e a quelli delle altre province, la provincia di Cosenza recita sempre il ruolo di protagonista assoluto. Infatti, i cosentini prevalgono nettamente sulle altre province anche per numero di iscritti AIRE. I Paesi che registrano più iscrizioni all’AIRE sono innanzitutto Germania e Argentina, seguite a distanza da Svizzera, Brasile e Canada. Negli ultimi 20 anni, è cresciuta notevolmente anche la popolazione straniera: al 31 dicembre 2019, gli stranieri residenti in provincia di Cosenza sono 37.314 e rappresentano il 5,3% della popolazione (nel 2010, erano circa 10 mila; all’inizio del secolo 2 mila). La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il 39,2% di tutti gli stranieri presenti sul territorio, seguita dal Marocco (9,4%) e dalla Bulgaria (6,1%). Giova ricordare che, grazie ai nuovi arrivi alcuni borghi in via d’abbandono hanno trovato nuova vita (si veda il caso di Acquaformosa). Eppure, nonostante il crescendo di arrivi, il saldo migratorio totale è sempre negativo.
Dunque, possiamo affermare che l’emigrazione continua a segnare in modo profondo la storia dei 150 comuni della provincia di Cosenza. E, proprio dall’analisi dei dati comunali, emerge con forza il peso che l’emigrazione ha esercitato e sta esercitando sui borghi cosentini. Se infatti passiamo in rassegna i dati dei comuni sotto i 5 mila abitanti, il quadro appare drammatico: a partire da Paludi (incidenza del 177,3% nel 2019 che diventa 179,7% nel 2020), troviamo una ventina di borghi la cui incidenza supera o è di poco inferiore al 100%; altri 25 borghi, partendo da San Martino di Finita (985 abitanti) e finendo a Carpanzano (226 abitanti), non arrivano neanche a mille abitanti: si stanno spegnendo velocemente, sono ormai in via d’abbandono. È la fotografia di un mondo che sta scomparendo, a custodia sono rimasti gli anziani, le chiese e le case vuote.

SPAESAMENTI COSENTINI
Lo svuotamento dei paesi di montagna cosentini ha come altra faccia della medaglia la formazione dei propri doppi altrove. In pratica, per ognuno dei 150 comuni della provincia è possibile ritrovare in giro per il mondo un suo doppio33. In ultima analisi, per non sentirsi soli, spaesati, per difendere la propria identità, i cosentini ripropongono altrove stili di vita, pratiche di comparaggio e di vicinato, tradizioni, feste, canti, cibi, dialetti, architetture del paese di origine. Sono certo che si potrebbero raccontare le storie di almeno 150 paesi doppi, di comunità che continuano a mantenere vive tradizioni, riti, dialetti, processioni, ricette, credenze dei luoghi d’origine. Comunità che continuano a influenzarsi a vicenda, a ridefinire continuamente le proprie identità guardandosi allo specchio, anche se sono distanti migliaia di chilometri. Un’identità “paesana” che spesso viene alimentata, ostentata e preservata attraverso la preparazione dei festeggiamenti in onore del Santo Patrono del paese di origine. Così quelli di Paludi festeggiano San Clemente, quelli di Albidona San Michele Arcangelo e quelli di Cropalati Sant’Antonio Abate o, come dicono loro, Sant’Antoni’ e’ ru porcu.
Si potrebbe raccontare la storia (drammatica) che unisce il comune silano di San Giovanni in Fiore a Monongah, o le storie degli emigranti moranesi che influenzano la vita politica del proprio paese, ma, fra le tante, particolarmente interessanti sembrano le storie dei mandatoriccesi a Francoforte, di due statue di Sant’Antoni’ e’ ru porcu (santo patrono di Cropalati) a Buenos Aires, e della pratica del mate a Lungro.
Mandatoriccio è un comune di 2.715 abitanti. Ciò che caratterizza la storia migrante di questo borgo è la grande tradizione nella ristorazione. Decine di mandatoriccesi hanno aperto in giro per il mondo ristoranti rinomati e pregiati, ma il cuore della cucina jonica-mandatoirccese sembra essere il centro di Francoforte in Germania, dove a tutt’oggi troviamo almeno una trentina di ristoranti mandatoriccesi: numero elevatissimo in rapporto al numero degli abitanti del borgo di origine. Tutto cominciò grazie alla sapienza antica di zu’ Saveriu che, negli anni Sessanta, consigliò ad alcuni giovani di andare a studiare alla scuola alberghiera. Da allora, molti giovani hanno seguito il consiglio di zu’ Saveriu, tanto che ormai possiamo parlare di una sorta di scuola mandatoriccese nell’arte della ristorazione che ha raggiunto gli Stati Uniti, la Francia e, soprattutto, Francoforte in Germania: in pratica se siete a Francoforte e chiedete di un ristorante italiano buono, avete molte probabilità di entrare in un ristorante mandatoriccese e di assaggiare la sardella, alimento tipico di una parte dello Jonio cosentino, che non manca mai nei ristoranti mandatoriccesi di tutto il mondo.
Spostandosi in Argentina, sembra di imbattersi nella storia di don Camillo e Peppone in salsa calabro-americana. Negli anni Sessanta, la comunità cropalatese a Buenos Aires era molto numerosa: a fronte del comune d’origine che vantava 2 mila abitanti, 600 erano i cropalatesi che vivevano in Argentina. Questi ultimi avevano formato un’associazione intitolata al Santo patrono. Tutti gli anni, il 17 gennaio, nel quartiere di San Martin, festeggiavano la festa del Santo, in contemporanea con il borgo d’origine, distante migliaia di chilometri. Da segnalare che, mentre a Cropalati è inverno, in Argentina è il periodo più caldo dell’anno: eppure, nonostante le temperature elevatissime, i devoti ripropongono le stesse tradizioni, la processione con la statua del Santo, le stesse ricette che impongono carne di maiale. All’interno del Comitato che organizza la festa si ripropone stessa la lotta fra destra e sinistra che occupava la scena italiana. Accade così che una delle due fazioni (maggioranza nel comitato) vota il trasferimento della festa e del Santo in un altro quartiere: villa Lugano. L’altra parte non accetta la decisione, si scinde, si porta la statua del Santo a casa. Allora, la parte che avevano votato per il trasferimento della sede in un altro quartiere fa arrivare un’altra statua dall’Italia e così, per qualche anno, il 17 gennaio, a Buenos Aires, la comunità di Cropalati celebrava due feste, con due Santi e due processioni diverse, che, unite a quella del paese d’origine fanno tre. Storie doppie, triple, di paesi che si sdoppiano e si rincorrono, al di là e al di qua dell’oceano.
Particolarmente singolare è poi il caso del rito del mate a Lungro. Il mate è la bevanda nazionale argentina: un infuso preparato con le foglie dell’erba mate, da cui deriva il nome. Preparare il mate è un rituale, con delle regole precise che bisogna seguire. Dopo la preparazione, tutti a bere mate dalla stessa cannuccia (bumbigia), e senza mai saltare il giro. In Argentina, dunque, si tratta di un rito nazionale, momento di condivisone e chiacchiere tra amici, vicini, in famiglia. Ma, che questo rituale sia praticato da un secolo anche in un comune cosentino di etnia albanese collocato ai piedi del Pollino è fatto assai curioso. Eppure, per testimonianza diretta, possiamo dire che, mentre in Italia è praticamente introvabile, il mate a Lungro si vende ovunque, insieme a tutto l’occorrente per l’uso; qualche abitante ha piantato anche il seme, avuto in regalo direttamente dall’Argentina.
Certamente il mate è stato portato a Lungro dagli emigranti lungresi di ritorno dall’Argentina alla fine dell’Ottocento, resta il fatto misterioso e affascinante del perché abbia attecchito così profondamente nella vita della comunità, e del perché abbia preso piede solo ed esclusivamente a Lungro. L’aspetto interessante è che il rituale del mate sia diventato, per la comunità di Lungro, uno dei riti fondativi della vita collettiva: basti pensare che una delle feste più importanti della comunità è diventata “Mateando”. Fra l’altro, va detto che le comunità albanesi sono notoriamente gelose delle proprie tradizioni, che esse difendono con ostinazione la propria identità culturale. Pertanto, il fatto che ci sia un elemento esterno che sia entrato così prepotentemente nella vita della comunità lungrese è un fatto rilevante che dice molto della potenza innovativa che può avere l’esperienza migratoria. Esempio lampante dei corti circuiti temporali e spaziali innescati dai fenomeni migratori, di questo andirivieni di vite, storie, santi, riti, che porta pezzi di cultura orientale in processione sulle sponde del Rio de la Plata, un’antica ricetta mediterranea ad essere protagonista nel cuore della Germania, e un’erba latino-americana a conquistare un pezzo di Calabria albanese.

COSENTINI ALLA CONQUISTA DEL MONDO
Oscar del cinema, mistero, malavita, moda: tanti sono i campi in cui sono protagonisti gli emigranti cosentini. Tutte storie interessanti, emozionanti. Del resto, è sempre sorprendente scoprire di condividere qualcosa di così intimo come le radici (orientali, bruzie, normanne), con personaggi che hanno catalizzato la scena mondiale. E allora ecco una rapidissima carrellata, una sorta di mosaico cosentino globale, una sinfonia bruzia che attraversa il mondo per ritrovarsi forse con gli occhi offuscati come quelli di Ernesto Sabato in visita nella terra del padre. Detto di Ernesto Sabato (uno dei più importanti scrittori sudamericani: il padre di Fuscaldo e madre arbëreshë di San Martino di Finita), hanno sangue cosentino che scorre nelle vene personaggi come: Toquino (madre di Cosenza); Heter Parisi (la nonna era di Terravecchia); Harry Warren, (nato Salvatore Antonio Guaragna: ha composto la musica di That’s Amore, i genitori erano di origini arbëreshë, entrambi nati a Civita); Tony Vilar (Antonio Ragusa, nato a Carolei, porterà al successo internazionale Cuanto calienta el sol); l’attrice Marisa Tomei, e il paroliere di Gardel, Cadicamo (entrambi intrisi della cultura arbëreshë di San Demetrio Corone); Albert Romolo Broccoli (il produttore di 007, aveva origini di Carolei); Tony Gaudio (direttore della fotografia, è nato a Cosenza ed è stato il primo italiano a vincere l’Oscar); Rocco Granata e la sua Marina (nato a Figline Vegliaturo); Renato Turano (nato a Castrolibero negli Sati Uniti, è oggi il maggio produttore di pane artigianale del Nord America); Tony Brusco (nato a Paola, è uno dei più importanti costruttori newyorchesi); Frank Costello (pseudonimo di Francesco Castiglia, nato a Cassano allo Ionio); don Peppino Sangiovanni (nato a Orsomarso, emigrato in Colombia; nel 1979 diventa presidente dell’America di Cali, portandola, nel 1986, a sfiorare la finale della Coppa del mondo contro la Juventus).
Elsa Serrano, nome d’arte di Elsa Romio, scomparsa di recente, è stata una figura di spicco della moda argentina. Nata a Corigliano il 13 luglio 1947, arrivò in Argentina con i suoi genitori nel 1959. La sua era una classica famiglia (numerosa) di emigranti cosentini: il padre Espedito (contadino), la madre Francesca Malavolta (casalinga), e 10 fratelli. Quando Elsa giunse a Buenos Aires, era una ragazzina con il sogno della moda. In Calabria, da autodidatta aveva appreso i primi rudimenti, poi, una volta in Argentina, studia, e, nel 1968, appena ventenne, apre un proprio Atelier di Alta Moda in cui disegna abiti destinati all’alta borghesia bonaerense. Il salto di qualità definito avvenne nel 1975 con il secondo marito: Alfredo Serrano. Il connubio sentimentale e artistico (evidente anche nel nome) porta Elsa ad essere la grande signora della moda argentina degli anni Ottanta e Novanta. Ha vestito la moglie del presidente argentino Alfonsín e ha disegnato l’abito da sposa di Claudia Villafane per il suo matrimonio con Diego Maradona. È stata nominata Cavaliere della Repubblica Italiana ed ha ricevuto numerosi premi internazionali. Contrapponeva il classico al trasgressivo, amava la moda “palazzo”, cucire i suoi vestiti sul pavimento, e amava tantissimo la sua Calabria. Nella sua Corigliano tornava spesso: «io resto un’emigrante che non vuole dimenticare le sue radici», mi disse quando l’incontrai nell’aprile del 2019. E le sue radici non le dimenticò: in un messaggio mi chiedeva se potevo portarle «la rosamarina, quei pesci piccolissimi con il pepe… io sono matta per la rosamarina». La rosamarina è la sardella. È così che la nostalgia trasforma il più piccolo pesce in un simbolo potentissimo, elemento identitario dall’altissimo valore simbolico che mette insieme la costa jonica cosentina, l’Argentina, e Francoforte.
CONCLUSIONI
Siamo giunti al termine di questo percorso in cui abbiamo dipanato la storia di una provincia mobile, e del suo popolo errante, forgiato dai tanti arrivi e dalle numerose partenze: possiamo affermare che nel corso degli ultimi 150 anni, 1 milione di cosentini è partito da quella che un tempo era la Calabria Citeriore, un numero enorme, soprattutto se si pensa che la provincia è fatta da piccoli e piccolissimi centri, che il comune più popoloso (Corigliano-Rossano) conta 77 mila abitanti (infatti, con oltre 100 mila cosentini, è Roma il comune più popoloso della provincia di Cosenza).
La realtà di oggi, ci parla di paesi fantasmi, di nuove partenze, di speranze che vengono da altri popoli, di possibili ritorni sul “luogo del delitto” dei propri figli lontani. Turismo delle radici, rimesse 2.0, popoli stranieri che fuggono dalla miseria nera che questi borghi hanno visto e sofferto sono i nomi che possono rendere possibile il ritorno alla vita di paesi che si smagrano velocemente: restano le case vuote (spesso costruire con le rimesse degli emigranti) ad aspettare nuovi segni di vita, che chiedono di essere visitate, abitate.
*docente Storia moderna e contemporanea Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

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