Quando un virus entra nel tuo corpo non ti chiede permesso, non ti dice “buongiorno, eccomi qui!”. Il virus è un viaggiatore, un navigatore, un globetrotter. Attraversa oceani, deserti, montagne. Vaga di bocca in bocca, di mano in mano.
Noi umani siamo le sue guide, gli accompagnatori, le scolte. Gli abbiamo dato la stura, pare, mangiando carni infette vendute nei mercati di Wuhan, lo abbiamo spupazzato ben bene dall’Asia all’Europa, alle Americhe, all’Oceania, all’Africa. Perché siamo globali, universali, liberi di circolare per il mondo. E perché, grazie alle tortuose vie del profitto, pretendiamo di importare da migliaia di chilometri di distanza beni che potremmo produrre da noi.
“Pandemia” viene dal greco “pan” (= tutto) e “demos” (= popolo). Un’infezione pandemica è perciò destinata a toccare chiunque: ciascuno di noi può prendere il virus, anche solo casualmente. Non per questo un pubblico ministero può dirsi autorizzato ad imbastire contro di lui un processo da santa inquisizione.
Ma questa verità elementare è ancora ignota ai più. E da animali intelligenti ma tanto idioti – quali siamo – continuiamo a cercare capri espiatori anche per un solo contagio. Perpetuiamo, cioè, l’idea che per ogni male vi sia un colpevole esterno a noi: una volta l’integralismo religioso, un’altra gli extracomunitari, un’altra i terroni, un’altra l’Unità d’Italia, un’altra gli ebrei, un’altra l’Europa, un’altra la mafia, un’altra ancora quelli fra noi che pare vadano in giro con l’hobby di contagiare gli altri, i bravi, i morigerati, gli ubbidienti, i perfetti. È l’idea semplificatrice che ha garantito in questi anni “la prevalenza del cretino” ben descritta in un famoso libro di Fruttero & Lucentini.
Così, quasi tutti coloro che beccano il virus, più che la sofferenza fisica sono costretti a lamentare quella morale, alla quale vengono sottoposti dai loro simili. Qualcuno è riuscito anche a raccontare la sua esperienza di recente sui social. Come ha fatto lo scrittore Cosimo Sframeli in occasione della prima ondata. Qualchedun altro, in passato, ne ha fatto testi di successo: Alessandro Manzoni, con “La storia della colonna infame”, riferito al processo contro due “untori” durante la peste milanese del 1630 giustiziati con il supplizio della ruota; il calabrese Raoul Maria De Angelis, con “La peste a Urana”, uscito nel 1943, ambientato in un luogo immaginario, dove si intrecciano eros, eversione e ancora una volta le ossessioni della caccia all’untore; Albert Camus, con “La peste” (per qualcuno un plagio del romanzo di De Angelis), pubblicato nel 1947, ambientato negli anni quaranta a Orano in Algeria, nel quale rinveniamo molti dei temi culturali dell’attuale pandemia.
Nonostante ciò, la storia si ripete ad ogni contagio. Anzi, la Storia (con la maiuscola), invece di essere “maestra di vita”, come avrebbe voluto Cicerone, testimonia della coazione dell’umanità a ripetere i propri errori, nel grande e nel piccolo. Nel “grande” ci stanno le guerre, i genocidi, i razzismi. Nel “piccolo” ci stanno – fra molto altro – anche quelle fantasiose “torture” moralistiche cui sono sottoposti tutti coloro che hanno avuto la sventura di incrociare il virus.
Intanto lui, il virus, continua indisturbato il suo mirabolante viaggio per il mondo, sfiorando, lambendo e, a volte, colpendo: magari anche qualcuno dei tanti moralisti in circolazione che credevano di essere esentati dal “lieto” incontro.
*Avvocato e scrittore
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