TORINO Un trapianto di fegato da donatore Covid positivo a ricevente positivo è stato eseguito dall’equipe del professor Renato Romagnoli all’ospedale Molinette di Torino, secondo cui è il primo al mondo in cui entrambi i pazienti erano infettati dal Coronavirus. Questo perché l’Italia è l’unico Paese in cui, da metà novembre, è consentito usare donatori positivi al Sars Cov-2.
L’intervento una settimana fa, su un 63enne calabrese affetto da cirrosi complicata da neoplasia epatica. Grazie all’infezione, che aveva già fatto parte del decorso, il paziente aveva però sviluppato gli anticorpi contro il Covid. Sette giorni dopo il trapianto, non ha infezioni respiratorie e si è addirittura negativizzato, tanto che dopo tre tamponi è stato trasferito in un reparto Covid-free.
L’esito dell’intervento, sottolinea Romagnoli, è non solo «un piccolo miracolo», ma anche «un ottimo auspicio per quanto il vaccino potrà fare per liberarci dal virus». «Ormai – spiega Alessandro Nanni Costa, immunologo ed ex direttore del Centro Nazionale Trapianti – sono state messe a punto procedure che consentono di fare il trapianto a persone infette in sicurezza. Non è mai semplice, ma sono problemi che si affrontano e si superano. Da positivo a negativo invece – puntualizza – si potrà intervenire solo quando potremo proteggere il soggetto non infetto con un vaccino».
«Il paziente – riferisce Romagnoli – era in lista per il trapianto dal 15 ottobre e ha presentato la prima sintomatologia da Covid il 9 novembre, con febbre e tosse. È stato tenuto in isolamento domiciliare per 20 giorni e il primo dicembre, quando è stato rivalutato, il tampone era ancora positivo ma il tumore era progredito, per cui o si interveniva subito o in pochi giorni non sarebbe stato più fattibile». «Abbiamo eseguito il trapianto il 10 dicembre, quando a Torino – precisa – avevamo già alle spalle quattro trapianti da donatori Covid positivi a riceventi guariti. Il primo è stato il 21 novembre, poco dopo c’è stato il caso all’Ismett di Palermo. Quello di cui parliamo oggi è quindi per noi il quinto intervento – sesto in Italia – che coinvolge pazienti con il Covid. Intervenire è stato un rischio calcolato. In una fase più iniziale della malattia invece, il rischio sarebbe stato enorme. Il decorso post-operatorio ci ha dato ragione». «La difficoltà – dice ancora – è stato operare in queste condizioni: immaginate un anestesista che deve intubare e ventilare un paziente positivo al Covid. Ma non facciamo le cose in modo avventuroso, interveniamo ogni volta che il rischio calcolato risulta inferiore al beneficio del trapianto». «La nostra fortuna – sostiene – è che in Italia abbiamo persone che ci invidiano: in questo caso il professor Paolo Grossi, ordinario di Infettivologia a Varese e infettivologo di riferimento mondiale per la trapiantologia. Da decenni si occupa di questi temi, e dobbiamo al suo impatto culturale la svolta che in Italia ha dato il via libera ai donatori positivi al Covid».
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