di Pino Nano
Siamo nel cuore più antico dell’Africa nera. Arriviamo a Namugongo che è notte alta. Attraversiamo il quartiere Kyaliwajjala, il comune è quello di Kira, nel distretto di Wakiso. Siamo solo a 16 chilometri a nord-est di Kampala, capitale dell’Uganda, e pochi chilometri dalle rive del lago Vittoria, a un’altitudine di 1189 metri sul livello del mare.
Il posto è tristemente famoso per via di una tragedia immane datata 3 giugno 1886. Quel giorno 32 giovani vennero bruciati vivi per essersi rifiutati di rinnegare la propria fede cristiana. Erano anglicani e cattolici, e qui a Namugongo, il 3 giugno di ogni anno, i cristiani dell’Uganda, ma non solo loro, i cristiani di ogni parte del mondo, si danno appuntamento e si ritrovano insieme per ricordare e commemorare il sacrificio dei martiri dell’Uganda. Sono centinaia di migliaia di fedeli ogni anno, folle oceaniche, segno che nessuno ha mai più dimenticato quella strage e quei martiri.
Ed è qui, in questo angolo sperduto e lontanissimo dell’Africa, il Congo da una parte, il Sudan del Sud dall’altra, Etiopia Kenia e Tanzania dall’altra ancora, che sorge un piccolo-grande Ospedale che porta i colori calabresi. Porta soprattutto il nome di una donna vibonese che prima di morire aveva fortemente sognato e voluto che in questa immensa isola di miseria e di degrado sociale sorgesse un ospedale che portasse il nome della sua famiglia e della sua terra. Sono i De Maria di Vibo Marina. Sembra davvero una favola moderna.
Ma partiamo dall’inizio di questa storia. Angelina De Maria (1906-1998) era una donna calabrese molto attenta ai bisogni del prossimo. Educata e votata alla carità in tuti i sensi, donna piena di idee lungimiranti ed azioni concrete, insegnante elementare per molte generazioni di ragazzi di Vibo Marina, e riferimento carismatico per molte donne della sua città e del suo comprensorio. Molti la ricordano ancora come donna di grande operatività, eternamente disponibile e al servizio di una comunità, che era quella che andava formandosi subito dopo il dopoguerra intorno al porto ed alle industrie di Vibo Marina, e quindi un comprensorio su cui pesavano mille problematiche sociali diverse.
Una donna moderna, intellettuale a suo modo rivoluzionaria, cristiana nel senso più vero della parola, sempre pronta a rimettersi in discussione e al servizio continuo degli altri. Attivissima in parrocchia, protagonista di primo piano tra le file dell’Azione Cattolica, instancabile nell’opera di volontariato di quegli anni, e soprattutto laica consacrata del Terzo Ordine francescano. Una vita umile, la sua, ma vissuta con la consapevolezza che solo pochissime donne in quegli anni riuscivano ad avere e a palesare, donna ricca di grandi ideali, che erano frutto soprattutto di una formazione familiare e culturale rigorosa e austera.
Bene, è in questo quadro sociale che Angelina cresce e si muove, figlia forse più autentica di una Vibo che allora rinasceva dalla crisi della guerra, e dove Angelina De Maria lavora giorno e notte per una “società finalmente matura e degna di questo nome” diceva a chi le stava intorno. Se fosse nata molto più tardi, e se oggi avesse avuto trent’anni, certamente le avrebbero chiesto di fare politica attiva e qualche movimento l’avrebbe certamente candidata al Parlamento.
Prima di morire, oramai affetta da un tumore al seno che non le diede scampo, in una lettera molto toccante Angelina De Maria scrive di proprio pugno il suo testamento spirituale, e manifesta il desiderio che «se non vi fossero altre necessità in famiglia», i suoi risparmi venissero destinati e spesi per realizzare «qualcosa di veramente utile in un territorio povero del mondo, non importa dove, decidetelo voi che verrete dopo di me», ma che sia «utile soprattutto alle mamme e ai bambini».
In realtà Angelina nel suo testamento spirituale non indica nessun luogo preciso, ma prima di volare in cielo aveva riposto la sua lettera-testamento ben ripiegata nella sua vecchia Bibbia, sul suo comodino, proprio come segnalibro, accanto ad un santino raffigurante i Martiri dell’Uganda.
Un presagio? Un segnale per i suoi eredi? Un sogno rimasto nel cassetto della sua esistenza? Un vero mistero la presenza di quel santino nella Bibbia di Angelina, perché quel “santino” veniva proprio dall’Uganda, e nessuno della famiglia seppe mai spiegarsi come e quando quell’immagine fosse mai arrivata a casa di Angelina, a Vibo Marina, a ridosso del grande porto.
Ma c’è dell’altro. Subito dopo la sua morte accadde un fatto sorprendente. Uno dei nipoti più vicini e più legati a zia Angelina, Enzo De Maria, medico per vocazione e per lunghi anni amatissimo gastroenterologo al Policlinico Universitario di Catanzaro, chiama al telefono un suo vecchio collega, che si era laureato insieme a lui a Perugia, e di cui aveva perso però le tracce.
Enzo sapeva solo che quel suo vecchio compagno d’università, medico come lui, aveva lasciato l’Italia per sempre, per dedicarsi ai poveri del mondo, ma non sapeva né quali né dove.
Enzo trovò allora un appunto, che aveva conservato per anni gelosamente tra i suoi diari e le sue carte private, e una sera di rientro da Catanzaro decise di comporre quel “vecchio” numero telefonico.
A volte la vita riserva sorprese impensabili. Quel numero era ancora attivo. E dopo i primi squilli, dall’altra parte del filo si materializza, come un fantasma, il suo vecchio compagno di università. «Sono Pino Fiorucci, chi parla?».
Enzo De Maria scopre così che il suo vecchio amico aveva consapevolmente rinunciato alla carriera universitaria e a quella ospedaliera in Italia, per realizzare un suo vecchio sogno, quello di fare il missionario in Africa. Ed era finito, non si sa come, in Uganda, a Kampala, dove ogni giorno centinaia di pazienti lo aspettavano davanti alla porta del suo ambulatorio per essere curati e assistiti.
Pane amore e solidarietà, nient’altro nella nuova vita di questo straordinario medico missionario italiano.
Una cosa tira l’altra, questa è la vita. Enzo si racconta a Pino, e ascolta Pino che a sua volta gli racconta se stesso e la sua nuova vita africana, e tra una cosa e l’altra il suo vecchio compagno di università gli confessa di avere ancora un sogno nel cassetto. Pino Fiorucci vorrebbe poter costruire, nel cuore dell’Africa nera, un vero e proprio dispensario, per la gente più povera, «un ospedale che possa dare assistenza e cure a chi non ha mai avuto voce e volto da queste parti», ma per farlo servono dei soldi che il medico italiano però non ha. Allora Pino poteva solo contare su un terreno libero, una vasta area incolta dove poter costruire il suo dispensario, un terreno proprio a ridosso del parco del Santuario dei Martiri dell’Uganda, che qualcuno gli aveva praticamente donato.
Nasce così l’idea di destinare i soldi lasciati da Zia Angelina al dispensario di Pino Fiorucci.
«Quando quel giorno il mio telefonino squillò, e dall’altra parte del filo c’era Enzo De Maria che mi cercava noi eravamo raccolti in preghiera – ricorda il dott. Fiorucci – con la gente del luogo a me vicina, proprio per chiedere che il Signore ci aiutasse. Rispondo al telefono, e come d’incanto Enzo mi racconta della zia Angelina, e del suo testamento. In quel momento realizzai allora che forse il mio sogno stava finalmente per realizzarsi».
Da quel giorno sono passati esattamente venti anni, ed è il giorno in cui a Namugongo, periferia buia e silenziosa di Kampala, viene posta la prima pietra della “Clinica Zia Angelina”. Un atto di amore che a distanza di vent’anni genera ancora frutti impensabili. Non a caso, la gente del luogo grida ancora al miracolo. L’Ospedale cresce giorno dopo giorno, grazie anche alle braccia di questa gente poverissima che capisce che l’Ospedale sarà un luogo di salvezza e di vita per tutta la zona. Lo sarà soprattutto per i più poveri, per i vecchi da troppo tempo ormai rassegnati a morire per strada senza cure, per i bambini che nessuno da questa parti aveva mai curato e seguito.
Parliamo di un territorio dove vent’anni fa cera di tutto, malaria, aids, febbre gialla, epatiti virali, meningiti, tifo, gastroenteriti e parassitosi intestinali, denutrizione, «già tante sofferenze e mille patologie diverse – dice Enzo De Maria – a cui il Covid di questi mesi aggiunge davvero molto poco».
Natale del 1999. Tra il 23 e il 25 dicembre di quell’anno, dunque a pochi giorni dal nuovo millennio, la monotonia e il silenzio di questa parte dell’Africa nera vengono improvvisamente “violentati” dall’avvio dei primi generatori elettrici e dal rumore inconfondibile delle prime pompe d’acqua.
«Da lontano ci parevamo tante piccole stelle, quasi delle lucciole – ricorda Enzo De Maria – piccole luci che si accendevano ad una ad una».
Nessuna lucciola, troppo caldo e troppa umidità perché potessero essere delle lucciole. Erano invece le luci del nuovo pronto soccorso e dell’accettazione, le luci degli ambulatori medici, le luci del primo laboratorio analisi e della piccola farmacia, le luci delle prime tre sale di degenza, di cui meravigliosamente attrezzata una con i lettini per i bambini, le luci del primo servizio di odontoiatria, di oculistica, di ecografia, le luci dei locali per le vaccinazioni ai bambini e quelli per le terapie antivirali. Infine, le luci del centro nutrizionale per le future mamme, e delle salette per l’accoglienza pre-post gravidanza e la sala parto.
Il miracolo di Zia Angelina aveva quindi, finalmente, preso corpo e si era perfettamente compiuto, forse molto più e molto meglio di quanto lei stessa potesse avere sognato o immaginato in vita.
«Desidero che mia figlia si chiami Angelina», chiederà una delle prime donne africane che aveva lì partorito al dottore Fiorucci. «Ma non è un nome ugandese», le rispose l’ostetrica. E lei di rimando, con una determinazione ed una saggezza straordinaria: «Voglio donare alla mia bambina il nome della signora italiana che ha costruito per noi questa Clinica! Per noi è la salvezza. Non la conosco questa signora, ma deve avere proprio un cuor grande per aver pensato a noi. So che non c’è più, ma lei è presente ogni giorno per noi quaggiù. Sono certa che continuerà a vivere in Africa insieme a noi ancora a lungo».
Vent’anni meravigliosamente ben portati.
La clinica oggi è aperta 24 ore al giorno, e continua svolgere la sua mission originaria, di aiuto e di assistenza ai più bisognosi. Sorge in uno splendido parco; ben organizzata, con oltre 60 dipendenti, tra personale medico, infermieristico e tecnico; c’è anche un nuovo laboratorio analisi cliniche “donato” a sua volta da Antonio De Maria, fratello di Angelina; ma sono in via di costruzione anche il nuovo reparto materno-infantile, la sala parto, il centro terapia Aids ed epatiti virali. La Clinica, sin dalla sua istituzione, è gestita in modo ammirevole dal Movimento dei Focolari, la cui fondatrice è Chiara Lubich, tramite l’organizzazione locale Nasso (Namugongo Social Services Organization), e attuale direttore sanitario è il dott. Fernando Rico, un bravissimo medico spagnolo.
Oggi la Clinica è accreditata presso il Ministero della Salute del governo Ugandese, e lavora nell’ambito de Catholic Medical Bureau, Nasso. Nel frattempo, continua a sopravvivere questo “ponte ideale” tra l’Italia, la Calabria e la “Clinica zia Angelina”, anche grazie al supporto concreto che viene continuamente assicurato dagli eredi di Zia Angelina. Da Giuseppe, ingegnere che vive a Bologna, da suo fratello Enzo, il medico, da Lella e Lina Barbaro, insegnanti, da Francesco giovane laureando in medicina, «ma anche dall’aiuto concreto di tanti amici calabresi – dice Enzo De Maria – moltissimi sono vibonesi, ma molte offerte ci sono arrivate alla Clinica da ogni parte d’Italia. Persino dalla Germania, dalla Francia, dalla Spagna».
«Siamo tutti esseri umani imperfetti” – aggiunge suo fratello Pino De Maria – ma tutti sappiamo che quando diamo un aiuto, c’è qualcosa in noi che ci rende contenti. Se volete saperne di più della Clinica di Zia Angelina scrivetemi direttamente, demariapino@virgilio.it. E se avete voglia di fare qualche piccola donazione fatelo direttamente in Uganda, mediante queste coordinate bancarie: “Zia Angelina Health Centre”; Centenary Bank, Kireka branch (Uganda); Swift Code: CERBUGKA; account nr. 3100027528».
Il resto, lo racconteranno altri dopo di noi.
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