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«Recovery Fund: troppo importante perché fallisca»

di Antonino Mazza Laboccetta*

Pubblicato il: 02/01/2021 – 11:30
«Recovery Fund: troppo importante perché fallisca»

Troppo importante è il Piano per le riforme e la resilienza (Pnrr) che, com’è noto, delinea gli obiettivi, le riforme e gli investimenti che l’Italia dovrà realizzare con i fondi europei di Next Generation EU, altrimenti noto come Recovery Fund. Importante non solo per l’Italia, ma, sul piano generale, per l’intera Unione europea perché porta con sé una novità estremamente significativa e potenzialmente dirompente, rappresentata dal fatto che la Commissione europea per finanziare il NGEU si indebiterà sui mercati finanziari, senza che la parola “eurobond” venga pronunciata in maniera espressa, non foss’altro che per tranquillizzare i Paesi “frugali”. L’avvio della condivisione del debito tra i Paesi europei, quale risposta alla crisi economica derivante dalla pandemia da Covid-19, potrebbe segnare una via di non ritorno, anche se il programma prevede un termine finale, che, allo stato, non appare che un tributo alla dottrina dell’austerità.
L’ammontare delle risorse previste dal Recovery Fund è complessivamente pari a 750 miliardi di euro. Di tali risorse l’Italia beneficerà per un importo ingente, pari a 209 miliardi: una parte è costituita da sussidi a fondo perduto (circa 81 miliardi); l’altra parte (circa 127 miliardi) è costituita da prestiti. Senza dubbio, un successo abilmente strappato dal governo e dai nostri negoziatori. Una bella bicicletta, insomma. Che il Governo dovrà però ben pedalare. Non è nuova al nostro Paese l’incapacità di spendere i fondi europei a disposizione e di perderli.
I tempi stringono, e, intanto, tra venti di crisi di governo, si fa gran discutere sulla struttura di governance del programma. Si tratta, in sostanza, di trovare un punto di equilibrio soddisfacente tra l’esigenza di monitorare in modo efficace l’impiego delle risorse e quella di non esautorare, in ossequio al principio della responsabilità politica, il governo e le amministrazioni centrali e periferiche, quali soggetti attuatori dei progetti. Ma, poiché troppo spesso dell’uso dei fondi europei s’è fatto cattivo governo, la sfida è quella di trovare una clausola di salvaguardia o, comunque, uno strumento che consentano di intervenire, assicurando il controllo democratico e politico, là dove l’uso delle risorse subisca rallentamenti o blocchi. Dovendo, tra l’altro, i fondi essere spesi entro il 2026, v’è più di una ragione di preoccupazione che proverò ad illustrare sinteticamente: a) i 750 miliardi che la Commissione europea prenderà a prestito sui mercati finanziari useranno come garanzia il bilancio comunitario. E il bilancio comunitario andrà alimentato attraverso l’introduzione, da parte dei singoli Parlamenti nazionali dei Paesi dell’Unione europea, di “nuove risorse proprie” (non si tratta, in altri termini, di un’operazione “neutra” sul piano finanziario interno); b) l’accesso ai fondi è legato alla presentazione di un piano (Piano nazionale di ripresa e resilienza) da sottoporre alla Commissione europea davanti alla quale gli Stati si impegnano ad usare le risorse in coerenza con gli obiettivi indicati dall’Unione europea e così sintetizzabili: transizione verde, digitalizzazione, inclusione sociale); c) i piani, da sottoporre all’esame della Commissione europea, vanno poi approvati dal Consiglio europeo entro tempi contingentati (il termine ultimo per la presentazione dei piani è aprile, ma la raccomandazione è quella di presentarli prima, in modo che vi siano i tempi per l’interlocuzione necessaria a consentire eventuali rimodulazioni del piano ove non coerente con gli obiettivi o non adeguato); d) una volta approvato, il piano è sottoposto a monitoraggio da parte della Commissione – che dovrà tenere conto del parere del Consiglio – finalizzato a verificare l’utilizzo delle risorse finanziarie. Anche se il Consiglio dovrà esprimersi a maggioranza qualificata, è stato però introdotto il c.d. «freno d’emergenza» quale tributo da pagare all’Olanda, che l’ha fortemente voluto. È un meccanismo che, a prescindere dal parere, consente di bloccare per tre mesi l’erogazione dei fondi; e) l’Italia, per rispondere all’emergenza legata alla pandemia, ha prodotto una serie di strumenti di sostegno, di ristoro, di supporto che, per molti versi, sono così fantasiosi – quando non “a pioggia” – da indurre il Censis nel suo recente Rapporto annuale a parlare di «Bonus Economy». Sabino Cassese ha definito il Bilancio di previsione dello Stato italiano per il 2021 «la sagra del corporativismo» (Corriere della Sera, 29 dicembre), mentre Cottarelli ha parlato di «euforia da deficit». Senza un disegno e una visione, il bilancio porta il disavanzo al 10,8 per cento e il debito pubblico al 158 per cento del PIL; f) nella bozza di Pnrr, predisposta dall’Italia, una notevole quota di risorse impegnate non viene utilizzata per investimenti “aggiuntivi”, ma per “sostituire” debito emesso in proprio con i prestiti meno onerosi sottoscritti dall’Unione europea. In altri termini, con il prestito europeo, emesso a tassi più vantaggiosi, l’Italia si “paga” il debito (più oneroso) contratto per gli investimenti già in essere, con la conseguenza che le risorse europee potenzialmente impiegabili per nuovi investimenti nella sostanza si riducono. Se l’operazione trova giustificazione nell’esigenza di frenare la corsa del debito pubblico, che si avvia a diventare insostenibile, nessuna giustificazione può trovare la mancanza di visione con la quale sono introdotte misure dirette solo a soddisfare appetiti particolari, senza che minimamente si ponga all’attenzione pubblica il problema di come (e di quanto) dovranno aumentare le entrate fiscali per riconcorrere le sempre maggiori spese. Cosa preoccupante, in un contesto in cui l’economia, sull’onda lunga della crisi del 2008, sconta una bassissima crescita. Molto pudicamente lo stesso Ministro dell’economia e delle finanze ha giudicato «troppo settoriali e specifiche», come ha evidenziato Cassese, misure dirette – per limitarsi a qualche esempio – al sostegno della «formazione turistica esperienziale» o del «piano nazionale demenze» o al recupero della fauna selvatica; g) l’Italia ha individuato, nella bozza di piano in circolazione, sei capitoli di spesa: i) rivoluzione verde e transizione ecologica; ii) digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura; iii) infrastrutture per la mobilità sostenibile; iv) istruzione e ricerca; iiv) parità di genere, coesione sociale e territoriale; iiiv) salute. La pioggia di bonus, in alcuni casi utile ed urgente per sostenere l’economia nel momento dell’emergenza sanitaria, andava – per così dire – “pensata” in prospettiva e, quindi, raccordata al poderoso programma di aiuti che l’Italia era intanto riuscita ad ottenere per evitare che quello che entrerà da un lato esca dall’altro sotto forma di spesa da sostenere improduttivamente. Misure che pure potrebbero rientrare nel quadro degli obiettivi fissati dal NGEU rischiano di diventare inutili rivoli di spesa se non inseriti all’interno di una visione organica (penso, per esempio, al bonus di 8 mila euro per l’acquisto di bici da corsa finalizzato a sostenere il programma di mobilità sostenibile); h) molto peserà sulla sostenibilità economica del programma la scelta – tutta ideologica – di non utilizzare i 37 miliardi, immediatamente disponibili, messi a disposizione dal Mes a tassi vicini allo 0 per cento (0,10 il primo anno e poi lo 0,35 per cento per una durata massima di 10 anni) e subordinati all’unica condizionalità di destinare le risorse alle spese, dirette e indirette, finalizzate a rafforzare/ristrutturare il sistema sanitario fortemente scosso dalla pandemia in atto. Un’operazione che consentirebbe un risparmio di interessi pari a circa 350 milioni (mi permetto di rinviare al mio “Necessario il ricorso al Mes” su queste colonne, 6 novembre 2020).
In conclusione, è una grande opportunità il Recovery Fund, ma la sua conduzione desta non poche preoccupazioni perché, come abbiamo evidenziato, la strada è irta di insidie. Ed è troppo importante perché fallisca. Per l’Italia e per l’Europa.

*docente Università Mediterranea di Reggio Calabria

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