di Francesco Donnici
ROSARNO «L’unico fondo di verità nei cenni biografici che circolano su Giuseppe Valarioti, è che la ‘ndrangheta non gli ha lasciato il tempo per esplicare al meglio le sue altissime potenzialità di intellettuale». La scomparsa dell’allora segretario del Partito Comunista di Rosarno, quarant’anni dopo, è considerata un fatto che cambiò la storia di molti, e forse di un’intera regione.
Gli anni successivi sono perdita, ricordo, grovigli giudiziari annodati intorno a nomi e vicende.
Rocco Lentini decide di stenderli lungo un unico filo rosso, descrivendo, una pagina dopo l’altra, i giorni della lotta, della costruzione, della distruzione, e le domande inevase. Un racconto che lo storico e giornalista originario di Rizziconi ha riversato nel suo ultimo libro, L’utopia di un intellettuale, edito da Città del Sole.
LA POLITICA COME ETICA Il libro ripercorre la vita e il pensiero di Valarioti, dagli studi al Ginnasio di Palmi fino alla laurea in Lettere classiche a Messina, ateneo che annoverava docenti come Alatri, Cotroneo, Pennisi e Resta, tra i più illustri del paese. Anche grazie a quegli insegnamenti, il giovane Peppe da Rosarno “acquisisce forte il senso dello Stato e la concezione che la dimensione pubblica debba sempre prevalere rispetto a quella privata” sebbene – disse nel corso di una lezione divenuta celebre – “secondo Aristotele non possiamo pretendere che l’individuo che fa politica rinunci completamente alle sue proprietà private, anzi: se uno ha anche interessi personali da tutelare, può darsi svolga ancora meglio il proprio compito”. Lentini ne ricostruisce e analizza minuziosamente ogni scritto per rendere al meglio la portata delle capacità e delle conoscenze di cui disponeva già al tempo.
«I primi anni 70 – racconta al Corriere della Calabria – mi trasferii a Messina per gli studi. Lì conobbi Peppe e lo seguii fino a prima che tornasse a Rosarno subito dopo la laurea, nel 1974».
Lo descrive come una persona innamorata della cultura e dell’arte, capace di precorrere i tempi che lo portarono, appena 25enne, a scrivere un saggio sulla Questione meridionale e a confrontarsi sulle pagine del periodico Pianadomani con pensatori del calibro di Pino Arlacchi e Domenico Antonio Cardone.
I due si incontreranno ancora nel 1977, anno dell’approvazione della legge 285 recante il nome della partigiana veneta, Tina Anselmi, prima donna ministro in Italia, che si proponeva di incoraggiare l’accesso dei giovani alla coltivazione delle terre e la costituzione delle cooperative. Una svolta anche per molti giovani calabresi come Valarioti. «Ritrovai Peppe tra i corsisti, insieme lavorammo alla costituzione delle prime Leghe per l’occupazione. In seguito entrò a far parte dell’esecutivo eletto del “Coordinamento 285 della Piana”». Iniziò una lunga stagione di lotte, assemblee, confronti e fu proprio in quegli anni che Valarioti scelse quel Pci che fino ad allora aveva definito “il pachiderma, il grande elefante dei vecchi tromboni”.
Aveva in mente un Partito diverso, «una sinistra fatta non di sola militanza, ma di idee».
Sulla scelta, ricorda Lentini, pesò anche «il fascino della grande coerenza di Peppino Lavorato».
Valarioti intendeva la politica come etica e la cultura come mezzo di elevazione sociale del popolo. «Parlava di diritti, ma anche e soprattutto di doveri».
«Lavorato lo propose come segretario del Partito a Rosarno, dove sarà anche eletto al consiglio comunale». Diversi gli impegni portati avanti in quegli anni, da quello per la biblioteca comunale, agli studi – rivelatisi poi rivoluzionari – sulla disputa relativa agli scavi dell’antica Medma, che Valarioti ricondusse prima di molti altri, a Rosarno.
Sempre nella Piana, il Partito «gestiva una delle realtà più importanti del Mezzogiorno». «C’erano una serie di cooperative, – racconta Lentini – tra cui la “Rinascita”, costituita nel 1971, che era arrivata a contare qualcosa come mille soci all’inizio degli anni 80». E proprio da lì parte il racconto che porterà alla vittoria il Pci a Rosarno: un racconto di denuncia.
LE ELEZIONI DEL 1980 «Valarioti fu tra i primi ad accorgersi che c’era qualcosa che non andava nel sistema. C’erano di mezzo i potenti clan della Piana, che avevano di fatto schiacciato i contadini della zona». Il fatturato miliardario della cooperativa aveva scatenato i loschi appetiti della ‘ndrangheta, che tentava di infiltrarla per attrarre sussidi nazionali ed europei.
«Nel 1980 l’onorevole Peppino Lavorato si candida alla provincia e Fausto Bubba, direttore della cooperativa, originario di Caraffa, si candida alle regionali. Quella campagna assunse caratteristiche particolari, per non dire drammatiche. Ci furono diverse manifestazioni violente, i manifesti strappati, l’attentato alla sede del Partito. In gioco non c’era solo il Comune, ma i rapporti di potere interno alla “Rinascita”. L’obiettivo era quello di scalzare il Partito Comunista che nel Cda contava 7 membri contro i 4 dei socialisti».
I comizi toccarono tutti i rioni di Rosarno, anche quelli dove vivevano le persone che Valarioti accusò pubblicamente di aver inquinato la cooperativa. “Se pensano di intimidirci, non ci riusciranno: i comunisti non si piegheranno mai”, urlò dal palco il 25 maggio 1980, giorno dei funerali della madre di Giuseppe Pesce, patriarca della cosca locale, all’indomani dell’incendio della macchina di Lavorato.
Una linea di verità, pesante, che valse la vittoria. È il 10 giugno 1980 quando il Pci risulta il primo partito eletto a Rosarno con 2.049 voti (pari al 29,45%).
La sera, alcuni componenti del Partito decidono di andare a festeggiare la vittoria. «Credo che nessuno, al di fuori dei presenti, sapesse di quella cena decisa quasi all’ultimo minuto, tantomeno che sarebbero andati alla “Pergola” (tra San Ferdinando e Marina di Nicotera, ndr)».
All’uscita dal ristorante, Valarioti si avvicina per prendere la macchina e infila le chiavi dentro la portiera quando una lupara gli scarica alle spalle due lampi di fuoco. “Aiuto cumpagni, mi spararu”.
«Sentiti i colpi, gli altri tornano indietro. Qualcuno riferisce del rombo di un’auto, una 127 color celestino della quale ricorda anche i primi numeri della targa. Lavorato si avvicina a Valarioti e lo prende tra le braccia». Inizia così una corsa contro il tempo verso l’ospedale di Gioia Tauro, ma non c’era ormai più nulla da fare. Aveva 30 anni. Si consuma quello che passerà alla storia come il primo assassinio politico della Piana di Gioia Tauro.
Lentini rivive nei dettagli quella sera, malgrado il dolore, non limitandosi a ricostruirne le dinamiche, ma rileggendola alla luce di altri eventi accaduti negli anni successivi.
Noè Vazzana, tra i partecipanti alla cena e iscritto al Pci, negli anni a venire rimane implicato nel così detto Affaire A3, in base al quale le ditte provenienti da fuori regione erano tenute a pagare delle tangenti alle cosche, che si erano spartite i lavori per la costruzione dell’autostrada. «Questi venne arrestato in quanto considerato il trait d’union tra clan e ditte. Verrà poi condannato patteggiando una pena a 6 anni di reclusione».
Altro nome che fa discutere è quello di Michele La Rosa, dirigente della “Rinascita”, che morirà anni dopo, ucciso nelle campagne della Piana. Un testimone oculare, Martino Rauti, sostiene di aver visto macchina e targa dei killer di Valarioti. «A Rosarno vi sono due auto con quelle caratteristiche: una è proprio di Michele La Rosa e l’altra di Rocco Giovanni Virgiglio, fratello di Biagio, che era al ristorante la sera dell’omicidio».
Depistaggi, insabbiamenti, inspiegabili ritardi, prima di giungere al processo. Nomi, dinamiche ed elementi che sono sembianza di «una storia che inizia quella sera e si propaga fino ad oggi attraverso un’onda lunga». Chi ha avvisato gli assassini che Valarioti e gli altri sarebbero andati proprio in quel locale? «Se lo chiedono in molti, ancora oggi».
IL PROCESSO VALARIOTI Inizia così un lungo iter che impegna le Istituzioni, durante il quale più volte viene evocato il delitto Valarioti e la possibile matrice ‘ndranghetista. «Valarioti era il simbolo di un cambiamento e per questo si scelse di colpire proprio lui». Così fino al 27 giugno 1980, giorno della Strage di Ustica che assorbe l’attenzione politica e civile di tutto il paese.
Nel frattempo, in Calabria, a Rosarno, quella morte nel sangue era stata apripista di giorni amari. «Ci mancò il terreno sotto i piedi», racconta Lentini. «Dopo quell’evento capimmo che forse era impossibile cambiare quella Calabria, dove la ‘ndrangheta aveva preso un sopravvento fortissimo. Alcuni si tirarono indietro, altri cambiarono partito. Chi rimase, soffrì un isolamento da appestato».
Il buio conduce fino al processo. Il 31 ottobre 1980, il procuratore di Palmi, Giuseppe Tuccio emette un ordine di cattura nei confronti Giuseppe Pesce ed altri, tra cui La Rosa. «Nel provvedimento si ipotizza, che fu il “compagno” Michele La Rosa a segnalare la presenza di Giuseppe Valarioti ai Pesce presso il ristorante La Pergola alcuni minuti prima dell’uccisione».
Tuccio, il pm, nella requisitoria chiese che per gli imputati la pena dell’ergastolo “invitando i giudici a rifuggire da atteggiamenti di incertezza o di timore” sottolineando che Valarioti era stato “assassinato in un agguato mafioso comandato dalla cosca dei Pesce” che voleva mettere le mani sulla “Rinascita”. Il 17 luglio 1982, gli imputati (mandanti ed esecutori) vengono però assolti per insufficienza di prove. «Avverso alla pronuncia nessun propose appello, né il collegio difensivo, né il pm, né il Partito».
Qualche anno dopo, il capitano Murgia, arrivato alla tenenza dei carabinieri di Gioia Tauro, riesce a far parlare il superlatitante Pino Scriva. Dalla sua testimonianza emergono nomi, tra mandanti ed esecutori, di decine tra stragi e delitti, compresa la “strage di Razzà” a Taurianova e l’assassinio di Peppe Valarioti. Per questo delitto, Scriva chiama in causa Giuseppe Piromalli, Giuseppe e Antonio Pesce, Sante Pisani come mandanti e Francesco Dominello (assassinato nel 1981) come esecutore materiale.
Dichiarazioni che valgono l’applicazione di 130 ergastoli in diversi processi, ma per il caso Valarioti, il collaboratore di giustizia viene considerato “inattendibile”. «Quel processo si chiuse prima di iniziare».
Giuseppe Tuccio, qualche mese dopo il processo si candiderà al parlamento nel collegio di Palmi, tra le fila della Democrazia Cristiana. Perderà, ottenendo però molti voti proprio a Rosarno. «Numeri che dicevano qualcosa di più». Al processo, rispetto alla volta precedente, l’accusa cambiò radicalmente idea e per quelle stesse persone chiese l’assoluzione con formula dubitativa. Il giudice Spadaro li assolse con formula piena il 26 febbraio 1987. Il nome del procuratore è una delle tante anomalie che si riverbera fino ai giorni nostri, e torna nel processo “Gotha”, quando viene portato alla sbarra dall’allora procuratore di Reggio, Federico Cafiero De Raho. Arcangelo Furfaro, in una lettera, definì Tuccio “un magistrato corrotto, custode e protettore dei Piromalli”. L’ex magistrato muore il 6 aprile 2019, prima di poter rispondere alle domande.
Il racconto di questa storia – di queste storie – è quello di un’onda lunga che conduce ai giorni nostri; è l’idea di ciò che poteva essere una terra che troppo spesso ha visto i propri sogni annegare nel sangue.
«Peppe era un miglio più avanti di noi. Quell’omicidio bloccò tutta la Calabria e il suo sviluppo. Bloccò tutta una schiera di migliaia di giovani e la loro rivoluzione. Credo che nessuno abbia ancora dimenticato». (redazione@corrierecal.it)
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