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Omicidio Ventura, la Cassazione conferma 30 anni per il mandante

Domenico Cannizzaro ha fatto uccidere il fotografo, e carabiniere in congedo, di Lamezia Terme per vendicare l’arresto e la condanna di un cugino

Pubblicato il: 08/01/2021 – 18:03
Omicidio Ventura, la Cassazione conferma 30 anni per il mandante

di Alessia Truzzolillo
ROMA
Ha ordinato di uccidere il carabiniere in congedo Gennaro Ventura per vendicare l’arresto di un parente che la vittima aveva contribuito a far condannare. La prima sezione della Corte di Cassazione ha confermato la condanna a 30 anni nei confronti di Domenico Antonio Cannizzaro a capo dell’omonima cosca di Lamezia Terme. Gennaro Ventura è scomparso nel nulla il 16 dicembre 1996, all’età di 28 anni. Per 20 anni la morte del fotografo, carabiniere in congedo, è stata avvolta nel mistero. Il corpo dell’uomo è stato ritrovato per puro caso nel 2008, in un casolare abbandonato in località Carrà-Volpe, alla periferia di Lamezia. Solo nel 2015, con il pentimento dell’esecutore materiale del delitto, Gennaro Pulice, la vera storia dell’omicidio è assurta agli onori della cronaca.

IL MOVENTE Pulice, ha raccontato di aver agito per conto di Domenico Cannizzaro, a capo della cosca di cui l’assassino era il braccio armato. Una vendetta chiesta dal boss per “punire” il fotografo per alcune indagini effettuate quando era carabiniere a Tivoli. Indagini che avevano portato all’arresto di Raffaele Rao, cugino di Cannizzaro. L’arresto, per una rapina durante la quale era stato sottratto un ingente quantitativo di sostanza stupefacente dagli uffici del perito chimico del tribunale, avrebbe provocato delle «conseguenze psicologiche al Rao» e anche queste, agli occhi di Cannizzaro, andavano lavate col sangue.

LA TRAPPOLA Pulice, il 16 dicembre 1996, diede un appuntamento di lavoro al fotografo (con la scusa di fotografare dei reperti archeologici che Pulice diceva di avere trovato in località Carrà-Volpe), lo portò fuori città e lo freddò con due colpi di pistola calibro 9×19, di cui uno alla testa. Poi nascose il corpo nel palmeto di un casale abbandonato, dove 12 anni dopo, i poveri resti di Ventura vennero rivenuti, insieme alla sua attrezzatura da fotografo e alla fede nuziale, da un privato che voleva acquistare l’immobile.
La storia giudiziaria del caso è amara e complessa. Nonostante le indicazioni e i nomi forniti dalla famiglia agli inquirenti, le indagini si arenano. Eppure fin dall’inizio, fin dalla denuncia, era emerso che Gennaro Ventura, prima di sparire aveva avuto un appuntamento di lavoro con tale Gennaro Pulice. Ed era emerso il fatto dell’arresto di Tivoli, di Rao e della parentela con Cannizzaro. Il 13 marzo 1998 arriva la prima archiviazione. Le indagini vengono riaperte nel 2008, col ritrovamento del corpo da parte di persone che stavano visitando il casolare perché interessate a comprarlo. Nonostante questo si arriva alla seconda archiviazione, fino al 2015 e alle confessioni di Pulice. Quest’ultimo è stato condannato in appello, con un giudizio separato, a 7 anni e 8 mesi di reclusione. La sentenza nei confronti di Cannizzaro cristallizza oggi una vicenda avvolta nell’oscurità per 24 anni anni donando respiro a una famiglia, assistita dall’avvocato Marco Bianucci, che ha chiesto giustizia e verità senza mai arrendersi. (a.truzzolillo@corrierecal.it)

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