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Parini: «La cultura dell’emergenza non aiuta la Calabria»

Sempre più spesso la regione finisce al centro dell’attenzione mediatica nazionale per le sue criticità. Un meccanismo che alimenta solo il populismo dilagante nel Paese. E gli appelli a nuovi comm…

Pubblicato il: 12/01/2021 – 7:20

di Roberto De Santo
COSENZA La cultura dell’emergenza incrementa la deresponsabilizzazione della classe politica calabrese. Così si invoca l’arrivo “salvifico” di commissari provenienti da fuori regione che possano risollevare le sorti della Calabria. In ogni campo. Ed intanto la regione finisce sempre più in pasto ai media in cerca di sensazionalismi – l’ultima trasmissione che si è occupata di Calabria è stata la puntata di domenica scorsa di “Non è l’Arena” di Giletti – senza indicare una via d’uscita dalle tante criticità che potrebbero viceversa essere affrontate dalla classe dirigente locale semplicemente “rimboccandosi le maniche”. Acquisendo cioè quel senso di responsabilità – dimostrato da alcuni settori d’eccellenza della nostra regione – che invece latita tra quanti amministrano le istituzioni locali. Una sorta dunque della sindrome del cane che si morde perennemente la coda di cui la Calabria è divenuta vittima. Finendo per alimentare solo il propagarsi di sentimenti populistici. Questo in sintesi il pensiero di Ercole Giap Parini, docente di Sociologia all’Università della Calabria, che abbiamo incontrato.


Professore, la Calabria è sempre più al centro dell’attenzione mediatica per vicende negative che in realtà avvengono anche in altri territori: si veda la gestione dell’emergenza sanitaria legata alla diffusione della pandemia. Questa morbosità è figlia del populismo che sta caratterizzando la stagione politica italiana o vede dell’altro?
«In questo periodo la Calabria fa audience perché viene additata come la regione simbolo di tutte le storture del Paese e devo aggiungere però ingenerosamente. Purtroppo i mezzi di comunicazione hanno anche un effetto “montante”. Quando si inizia a lanciare una certa immagine di un territorio, questa viene “rimbalzata” da altri media e così si finisce per creare il caso. Il “caso Calabria” è naturalmente un caso difficile, un caso di cui non da anni, ma da decenni conosciamo i limiti, le difficoltà, le storture. Tutte ascrivibili non soltanto ad una dimensione locale. La Calabria non è una monade chiusa in se stessa, ma è un’espressione di questo Stato e degli equilibri che in questo Stato sussistono. Certo, la Calabria ha tanti problemi, ma non da oggi. Se parlarne produce un moto di reazione, allora può avere un senso. Se invece rimane nell’ottica di un voyeurismo che mira a stigmatizzare certe situazioni, beh allora non si fa altro che creare uno stereotipo. E gli stereotipi di solito si rinforzano, non vengono demoliti».
Lei parlava di reazione, crede che i calabresi difronte alle vicende negative che interessano il proprio vissuto invece di indignarsi dimostrino solo rassegnazione?
«No, non credo in caratteristiche “tipiche” dei calabresi. Io non ho mai creduto che esistano tratti distintivi comportamentali legati esclusivamente all’etnia o all’appartenenza ad un determinato territorio. Quello che sta avvenendo è altra cosa. Sicuramente da un lato la Calabria è una regione stanca di promesse, ma anche in un certo senso è stanca di indignarsi. Ritengo che la Calabria in fondo non abbia bisogno di indignazione, ma piuttosto di duro lavoro, precisa analisi e capacità – come si fa già in alcuni ambiti di questa regione – di portare avanti progetti innovativi. Credo che in Calabria, a fronte di tanti limiti, ci siano anche tante risorse e persone capaci di lavorare bene. Abbiamo una magistratura che funziona. Abbiamo, nonostante quello che si dice, operatori sanitari – non strutture – che di giorno in giorno si sacrificano e così facendo sono riusciti a contenere il diffondersi dei contagi. E se oggi la Calabria è nell’occhio del ciclone mediatico legato alla gestione della pandemia non lo è certamente per l’attività di chi lavora in prima linea, ma lo è piuttosto per le gravi carenze che dipendono dalla storia di questa regione e dal condizionamento che ha subito nell’ambito di un contesto più ampio».
E a proposito di magistratura che ben funziona in Calabria, sono in tanti ad invocarla per correggere le “storture” di cui lei parla. Si tende sempre più spesso e in diversi contesti a citare l’attività ad esempio del procuratore capo Nicola Gratteri. Come giustifica questo fenomeno?
«Si invoca la magistratura, e lo dice lo stesso Gratteri, quando le altre istituzioni perdono credibilità. Se si chiede l’intervento dei magistrati – preferirei parlare di magistratura e non del singolo magistrato Gratteri -questo rappresenta una debolezza del sistema. In altre parole esiste un contesto istituzionale in Calabria che non riesce a tradurre in azioni concrete quelle che sono le esigenze reali dei calabresi. Citavo prima il caso positivo della magistratura perché assieme ad altre istituzioni – come l’Università e non solo – questa dimostra che esiste una Calabria che c’è, è ben visibile ed opera correttamente: è la Calabria della magistratura, appunto, delle Università e dei modelli ad esempio dell’accoglienza. A questo proposito ricordo quel modello Lucano che in qualche modo si è tentato di affossare. C’è anche la Calabria che si occupa della devianza giovanile come ad esempio, il progetto “Liberi di scegliere” del Tribunale dei minori di Reggio Calabria, con i figli delle famiglie mafiose. Un’esperienza assolutamente innovativa non soltanto sul piano nazionale, ma nel contesto europeo. Tutti questi sono esempi di una Calabria di eccellenza. Esempi di una Calabria che sa muoversi. Esempi che dovrebbero essere valorizzati e dovrebbero fare sistema. C’è invece qualcosa che impedisce alla Calabria di “fare sistema” e questo fa sì che ci poniamo a livello nazionale come una sorta di simbolo di tutte le storture che interessano il Paese. Questo comunque non significa che la Calabria non abbia problemi. Ne ha tanti, tantissimi. È una regione attraversata da tensioni e squilibri dovuti innanzitutto ad una scarsa capacità di programmazione e all’incapacità soprattutto della classe politica – ma non solo – nel voler recidere quei legami con i poteri mafiosi. Ed è questo uno degli effetti più pesanti e che penalizzano la Calabria».
Citava esempi virtuosi, eccellenze di modelli calabresi. Perché, secondo lei, questi messaggi positivi non passano, non raggiungono il grande pubblico?
«Perché non fanno notizia e continueranno a non farla finché non si farà sistema. È molto più facile andare ad una trasmissione televisiva, sbraitando qualche slogan ed ottenere audience. Poi tutto si ferma lì. Tutto finisce quando lo decide il dito del telespettatore sul proprio telecomando».

E così la Calabria diventa l’eterna commissariata. In tutti gli ambiti, non solo sanitario. Si invoca l’arrivo di personalità esterne anche in politica. L’ultimo esempio è legato al nome del sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, indicato come possibile candidato a presidente della Regione.
«La Calabria è una regione che ha perso il senso della fiducia nelle proprie forze. Quindi aspetta sempre che accada qualcosa dall’esterno. Che venga il de Magistris di turno a salvare e mettere a posto la situazione. Che venga Gino Strada, che io stimo, ma che rappresenta, appunto, quella figura taumaturgica. Cioè chi provenendo da fuori regione riesce a risolvere i problemi della Calabria. Se davvero dovessi indicare un limite in questa regione è quello di non aver saputo selezionare una classe dirigente non tanto capace, ma responsabile. La cultura dell’emergenza è una cultura della deresponsabilizzazione che produce quel “tanto non sono stato io” o “ci sarà qualcuno che verrà a risolvere i problemi” o ancora “c’è qualcuno che porterà le cose in ordine”. Dichiarare lo stato di emergenza rappresenta uno sgravio enorme per questa classe dirigente. Ripeto non mi riferisco a competenze o preparazione, mi riferisco a quella capacità di assunzione di responsabilità di fronte ai cittadini, agli utenti, ma anche ai fruitori della comunicazione. Abbiamo bisogno di una classe dirigente, a tutti i livelli, più responsabile. Lo stato di emergenza certamente non aiuta». (r.desanto@corrierecal.it)

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