di Francesco Donnici
GIOIOSA IONICA Il 13 gennaio 1921 a Radicena, l’odierna Taurianova, nasceva Francesco Modafferi. Cento anni esatti dopo, nella “sua” Gioiosa Ionica, l’amministrazione comunale gli intitola una via affinché quel nome, oltre che nella memoria di molti, possa rimanere impresso nero su bianco. «L’iniziativa – si legge nella nota – nasce dalla volontà di onorare la memoria del professor Francesco Modafferi, già sindaco, e di omaggiare in maniera tangibile e duratura una grande personalità che ha dato un considerevole contributo alla crescita politica, sociale ed economica del comprensorio».
Via Modafferi sostituirà quella già nota come “via Principe di Piemonte”. Scelta non casuale: «La nuova via sbocca sulla via Rocco Gatto: ciò rappresenta un elemento dall’alto valore simbolico in quanto unisce idealmente le due figure protagoniste del movimento antimafia calabrese negli anni 70».
“Il Professore”, l’intellettuale, il politico, il sindaco antimafia. Francesco Modafferi è stato molte cose e la sua storia si è incrociata proprio con quella di Rocco Gatto, il “mugnaio Comunista”, molti anni addietro.
Sandro, uno dei quattro figli di Modafferi, ci racconta quegli anni e cosa significa ricordare suo padre nella Calabria del 2021.
L’INTITOLAZIONE: UN PERCORSO DI MEMORIA E LEGALITÀ L’iniziativa era prevista da tempo, ed è legata ad un impegno assunto dal Comune in concomitanza con la donazione di libri e testi fatta dalla famiglia per la Biblioteca comunale lo scorso 2015.
Le restrizioni in corso, non permetteranno però di realizzarla nel modo in cui era stata pensata fin dal primo momento dal sindaco Salvatore Fuda, e proprio da Sandro Modafferi, che a Gioiosa Ionica è tornato a vivere dopo una lunghissima esperienza in Toscana, a Pisa. «Quest’iniziativa è un segno di come si dovrebbe essere e non si è più. – racconta – Oggi si avverte la mancanza di un tessuto sociale radicato, com’era quello dei partiti, delle associazioni e dei sindacati di allora. Inoltre, quegli anni si ricordano anche per figure come il capitano Gennaro Niglio – conosciuto nelle cronache del tempo come “il terrore dei clan” – e don Natale Bianchi, poi scomunicato da una Chiesa che non voleva parlare di mafia». Elementi che nella realtà odierna «si fa fatica a ritrovare». Ripensare quel tempo «da un lato è un po’ frustrante, dall’altro fa anche bene: il ricordo non deve fermarsi alla cerimonia, ma dev’essere un monito per le nuove generazioni affinché si possa creare ancora qualcosa di positivo».
Questo il senso di un’intitolazione che è anche un orgoglio per la famiglia. «Fa piacere – dice Modafferi – ma nostro padre ci diceva sempre che le battaglie non si vincono da soli; si vincono quando si crea rete. Il legame anche col nome di Rocco Gatto fa sì che questo possa diventare un percorso della memoria o della legalità, anche per coinvolgere scuole e nuove generazioni in un’opera di sensibilizzazione proiettata al domani».
LA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE CONTRO LA ‘NDRANGHETA «Va dato atto all’amministrazione che la scelta di incrociare via Modafferi con via Rocco Gatto, è anche sintomo di intelligenza politica». Nella seconda metà degli anni 70, Sandro Modafferi è studente a Pisa, già impegnato in politica. Nel frattempo suo padre è sindaco di Gioisa in un contesto sociale e politico particolare per tutta la regione. Il 6 dicembre 1975, l’amministrazione Modafferi, sindaco del Partito Comunista Italiano, proclama il primo sciopero cittadino contro la ‘ndrangheta. Due anni dopo viene assassinato Rocco Gatto nel “raid del mercato” e sempre Modafferi spinge per la costituzione di parte civile del Comune – che avverrà il 24 gennaio 1978 – in quel processo. Sarà la prima della storia; un segnale importante. «Non si era mai vista una cosa del genere in Italia. Se uno legge gli estratti parlamentari dell’epoca, negli atti ufficiali non si parlava di ‘ndrangheta, ma di fenomeni malavitosi in linea generica. Subito dopo questa vicenda si è cominciato a parlare e a ragionare tenendo conto anche di questa realtà».
Quel momento segna uno spartiacque per Francesco Modafferi, per il Pci, per l’intera regione che qualche anno dopo, nel 1980, assiste inerme ad un efferato delitto politico per mano della ‘ndrangheta, il primo nella Piana di Gioia Tauro: l’omicidio del segretario del Pci di Rosarno, Giuseppe Valarioti.
«Ricordo bene quei giorni. – racconta ancora Sandro Modafferi – Nostro padre non voleva coinvolgerci in queste vicende, tanto che venni a sapere dalla prima pagina di Repubblica che era stato minacciato di morte. Mi trovavo a Milano per una manifestazione e quando comprai il giornale lessi il suo virgolettato: “Mi ammazzino pure, tanto io non mollo”. Come padre, ci voleva proteggere. Da “vecchio Comunista”, invece, non voleva cedere, e fu importante anche la vicinanza dei compagni di partito».
«L’assassinio di Rocco Gatto – continua – fu un campanello d’allarme anche per il Pci, in qualche modo in ritardo sul fronte del contrasto alla criminalità organizzata. Quell’evento costrinse i vertici del Partito a prendere in seria considerazione il problema mettendo in campo le forze migliori». Eppure, Francesco Modafferi pagò negativamente la sua scelta di schierarsi apertamente e in maniera forte contro la ‘ndrangheta: «All’epoca c’era un partito socialista altalenante che creava molte difficoltà. L’esperienza di mio padre cessò proprio nel 1980, dopo che i socialisti fecero dimettere i propri consiglieri comunali. Nonostante le difficoltà e le tante proposte ricevute negli anni successivi, mio padre scelse comunque di rimanere in Calabria a condurre le proprie battaglie».
«RISCOPRIRE L’IMPORTANZA DELL’UNITÀ POLITICA E DELLA CULTURA» Prima che politico, Francesco Modafferi era “il Professore”, ovvero «un maestro che aveva scelto di insegnare in una scuola nei pressi di Gioiosa, con “interclassi” composte in prevalenza da persone povere. Andava a prendere i ragazzi nei campi, dove lavoravano con le famiglie. Sosteneva che la cultura e il sapere fossero gli elementi che le classi più umili dovevano padroneggiare per cambiare il proprio futuro. Credeva nella scuola pubblica per tutti. Nonostante noi figli avessimo buoni voti ci diceva che era solo il “minimo sindacale” perché eravamo stati fortunati a crescere in un ambiente come il nostro».
La cultura come strumento di emancipazione sociale e la foto di Antonio Gramsci sulla scrivania, recante la scritta “lo studio è sacrifizio”. Il figlio Sandro lo descrive come «una persona coerente». Quello che si definirebbe un uomo ed un politico d’altri tempi quando si viene a contatto con la crisi di valori che investe l’Italia contemporanea.
Verrebbe allora da chiedersi: quanto bisogno ci sarebbe, oggi, di un Francesco Modafferi? «Non so se ci sia bisogno di un Francesco Modafferi, ma sicuramente c’è bisogno di tanti Francesco Modafferi. Negli ultimi anni di vita, mio padre ha sempre ricordato l’importante campagna dei suoi tempi, sottolineando come alla fine ne fossimo usciti sconfitti: come sinistra e come meridione. Chi vive qui in Calabria, riconosce l’esistenza degli aspetti positivi, ma al contempo è consapevole che per molte cose come la sanità, il lavoro, la valorizzazione del territorio, è come se il tempo si fosse fermato. Oggi c’è bisogno di figure importanti, come per molti aspetti è stato Mimmo Lucano, ma i singoli servono a dare un impulso al collettivo: se non c’è un tessuto forte dietro poi si rimane soli e le iniziative finiscono per non avere successo».
Parole nostalgiche dalle quali trapela a tratti qualche punta di speranza nel prossimo futuro che vede la regione ancora alle prese con un’elezione. «Non vedo grandi condizioni di rinnovamento. Si aspetta ancora l’uomo che deve arrivare per salvarci. Queste figure, sebbene stimabili, non sono rappresentative di un tessuto sociale più ampio. Si rischia così di non dare risposta alle reali necessità della politica calabrese. La sinistra, come la politica tutta, dovrebbe tornare a sentire l’esigenza di lavorare unita per raggiungere gli obiettivi senza cedere a derive demagogiche». (redazione@corrierecal.it)
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