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«La Calabria trattata come una colonia. Qui non c’è una vera classe politica»

Il caso de Magistris («dirottato qui come se fossimo una provincia del Regno delle Due Sicilie»). I dubbi sul legalitarismo («un sottoprodotto del populismo»). Lo storytelling che «fa della Calabri…

Pubblicato il: 14/01/2021 – 6:28
«La Calabria trattata come una colonia. Qui non c’è una vera classe politica»

di Pablo Petrasso
COSENZA
La Calabria trattata come uno di quei paesi post coloniali «incapaci, cinquant’anni fa, di arrivare autonomamente all’indipendenza e che andavano “aiutati” dall’esterno». Una cosa inconcepibile nella Prima Repubblica (e oltre) che si ripropone sovente. Per «l’assenza di una classe politica regionale degna di questo nome». Spartaco Pupo, politologo, professore associato di Storia delle dottrine politiche nel Corso di laurea in Scienze Politiche dell’Unical, analizza il momento: tra candidature annunciate, tavoli “ballerini” e trattative romane le Regionali sono un rebus.
La Calabria pare votata, in politica, alla costante ricerca di un “Papa nero”: qualcuno che arrivi da fuori regione a togliere le castagne dal fuoco ai partiti. Perché l’ipotesi si profila ogni volta che si vota per le Regionali?
«Da quando ha smesso di funzionare il criterio partitico di selezione della classe politica, il “Papa nero”, come lo chiama lei, colma il vuoto di leadership politica in un meccanismo elettorale che è sempre più una mera procedura formale. Ma il “Papa nero” non viene sempre da fuori. A destra, per esempio, la Santelli, era una specie di “Papessa nera”, se non altro per essersi formata fuori dalla Calabria, per non essere passata dalla “gavetta” negli enti locali e per i suoi trascorsi negli ambienti socialisti e radicali. Come “Papa nero” per la sinistra è stato Callipo, figura di imprenditore con un passato da situazionista elettorale, comunque estraneo all’agone politico. La verità è che la Calabria sembra aver fatto la fine di quei paesi postcoloniali incapaci, cinquant’anni fa, di arrivare autonomamente all’indipendenza e che andavano “aiutati” dall’esterno. E il paradosso è che l’elezione regionale, ben lungi dal coincidere con la realizzazione del principio del decentramento e dell’autodeterminazione per cui sono nate le regioni, qui vede l’imposizione di candidati estranei al contesto sociale e politico, oltre che anagrafico, della comunità locale. Per intendersi, De Magistris in situazioni normali sarebbe il candidato ideale a presidente della Campania, e invece viene dirottato in Calabria, come se fosse ancora una provincia del Regno delle due Sicilie con Napoli capitale. E questo perché 15 anni fa De Magistris ha svolto il suo dovere di magistrato a Catanzaro e sul clamore mediatico delle sue inchieste è riuscito a costruire la sua fortuna politica, prima come parlamentare europeo e poi come sindaco di Napoli. Tutto ciò è surreale, e si verifica solo in una terra come la Calabria, dove la democrazia non è sospesa, come si dice, me è un rituale di facciata, un orpello formalistico svuotato di partecipazione, idee e programmi».
Di recente lei ha scritto – riportiamo dai social – «perlomeno ai tempi di Misasi, Mancini, Gullo, Guarasci, Principe, Casalinuovo, Tripodi, Valensise e altri, con tutti i difetti, non avevamo bisogno di marziani per governare la Calabria o anche solo per discuterne». Perché un tempo sarebbe stato inconcepibile anche solo evocare i cosiddetti “marziani”?
«Quei politici della Prima Repubblica si erano tutti formati in partiti tradizionali come la Dc, il Pci, il Psi e il Msi, a vocazione nazionale ma con solide basi meridionalistiche, e si facevano portavoce dell’idea che la priorità della politica italiana dovesse essere la riduzione del divario tra Nord e Sud. Con tutti i limiti dell’assistenzialismo e del patronato per i propri “clientes”, i leader calabresi dell’ex “arco costituzionale” contavano tanto nei rispettivi partiti, come nel caso di Mancini, che è stato addirittura segretario nazionale del Psi, quanto nei palazzi del potere, e riuscivano a condizionare le scelte dei governi fornendo al contempo un minimo di prospettiva ai loro elettori. L’esigenza di dovere appaltare a marziani la guida di questa regione o il dibattito pubblico sui suoi problemi proprio non esisteva, perché una classe politica locale c’era ed era anche rispettata nel resto del Paese. Magari governava male, ma era dotata di una cultura di governo. Non mi pare che lo stesso possa dirsi per la situazione odierna, in cui il vero dramma della Calabria è l’assenza di classe politica degna di questo nome».

Giacomo Mancini, a destra, con Bettino Craxi

Il sindaco di Napoli de Magistris scioglierà le riserve sulla propria candidatura a governatore della Calabria tra domenica e lunedì ma pare propenso (parole sue) ad accettare. La sua narrazione vede la discesa in campo nel segno di due categorie spesso abusate in politica: quelle di “rivoluzione” e “novità”. Crede che la proposta dell’ex pm di Catanzaro si possa dire rivoluzionaria o nuova (o entrambe)?
«Se l’idea che De Magistris ha della Calabria è quella giudiziaria, ereditata dalle sue inchieste di 15 anni fa, allora dalla sua candidatura non c’è da aspettarsi nulla di nuovo, né di rivoluzionario, perché la svolta giustizialista ha sempre attecchito nelle aree depresse. Il legalitarismo, in fondo, è un sottoprodotto del populismo, come ha dimostrato l’esperienza di Di Pietro, uno dei più grandi populisti dell’Italia repubblicana dopo Achille Lauro e prima di Grillo e Salvini. La stessa figura del magistrato-governatore non è inedita, avendo la Calabria già conosciuto, nel 2000-2005, quella di Chiaravalloti, peraltro autoctona».

Quali sono le dinamiche sottese alla eventuale candidatura di De Magistris?
«La dinamica è semplicemente una: mettere d’accordo PD e 5 Stelle. Resta però da capire come potrebbe De Magistris dialogare con i partiti di cui ha indagato i gruppi dirigenti e, soprattutto, metterne in discussione la leadership, tutt’altro che tramontata. I 5 Stelle, dal canto loro, devono mettersi d’accordo con se stessi, prima che con gli alleati, e decidere se iniziare a sporcarsi le mani con la gestione del territorio. La speranza di riscatto che alle politiche del 2018 i calabresi avevano riposto nei pentastellati, i quali hanno beneficiato del 43% dei voti e ben 17 parlamentari, è stata ripagata con il totale disimpegno alle regionali di un anno fa, tant’è che il movimento di Morra e compagni non è riuscito a eleggere neanche un consigliere regionale».
Ma De Magistris vanta ormai una certa esperienza di amministratore e politico. È quella che serve alla Calabria?
«Governare la Calabria non è come amministrare Napoli, città che ha molti problemi ma altrettanti pregi, tra cui soprattutto quella grande vitalità sociale e culturale che finisce sempre per valorizzare l’azione politica, specialmente quella dei sindaci. È vero che la Calabria condivide con la Campania la pervasività di una criminalità organizzata che infiltra il potere politico-amministrativo e si sovrappone con logiche personalistiche a consorterie di affaristi, ma quello calabrese, a differenza di quello partenopeo, è un territorio depresso, in preda a uno spopolamento crescente, afflitto da una disoccupazione endemica e sempre più distaccato dal resto della comunità nazionale. Questo processo di estraneazione, di secessione a freddo, come potremmo chiamarla, è imputabile tanto al malinteso senso di rassegnazione dei calabresi quanto alla trentennale politica filo-settentrionalista del governo centrale, che ha colpito il Sud, in generale, e ha mortificato la Calabria, in particolare, vista fino ad oggi come un peso in economia, una terra incapace di cambiare il proprio destino e, come tale, da escludere dalla rappresentanza nelle postazioni di governo e sottogoverno. La ricetta del legalitarismo populista di De Magistris potrebbe non bastare per la soluzione di problemi che richiedono una forte presa di coscienza civica da parte dei cittadini, possibilmente senza processi di colonizzazione mediatica e politica».
Non crede che una parte dell’elettorato, anche impegnata, abbia la tendenza a scegliere figure carismatiche (specie quando il carisma che si ammanta di legalità) a cui affidare la gestione della cosa pubblica. È come se un pezzo di società civile deluso da tutti coloro che hanno governato finora decidesse di affidare tutto a una personalità riconosciuta…
«C’è carisma e carisma. C’è quello che nasce da dinamiche democratiche, come il carisma di Salvini, e quello che prescinde dal momento elettorale, come nel caso di tecnocrati alla Draghi o di personaggi come Strada, famosi e stimati nei loro ambiti ma estranei al gioco democratico. Non dimentichiamo, poi, che nell’immaginario collettivo nazionale la Calabria vive una doppia dimensione del carisma: da un lato quella seriosa di Nicola Gratteri, il magistrato antimafia che vuole “liberare” questa terra dal malaffare; dall’altro quella tragicomica di Cetto La Qualunque, emblema del politico cafone che si afferma col voto di scambio e le promesse facili. In ogni caso, questo affidarsi totalmente alla “persona” del politico è uno strano ritorno alla mentalità tipica delle società politiche antiche, in cui il buongoverno si misurava unicamente dalle qualità personali dei sovrani. Ma sono almeno cinque secoli che in Occidente le cose sono cambiate. La differenza, specialmente dopo la parentesi totalitaria, la fanno la qualità e l’efficienza delle istituzioni, non certo la personalità dei leader. È dalla cultura delle istituzioni che si dovrebbe partire, anziché confezionare l’identikit di imperatori da acclamare, dimenticando, tra l’altro, che qui ci sono sempre meno legionari acclamanti e sempre più cittadini sfiduciati nei confronti delle istituzioni».
In passato la Calabria è stata governata con logiche consociative. Non vale la pena neppure elencare errori e ruberie. C’è però la sensazione che i media, soprattutto alcuni, tendano a spettacolarizzare solo quando si parla di Calabria. E che addirittura il lessico viri verso il trash quando si affrontano i fatti della nostra regione. Siamo davvero così anormali come sembriamo in certe arene televisive?
«Lo storytelling televisivo fa della Calabria uno “scandalificio” a buon mercato. È dai tempi di “Anno Zero” che la regione è terreno di caccia per cronisti di nera e giornalisti antimafia, che qui trovano visibilità e tribuna senza badare alle conseguenze, come la moralizzazione inutile e a basso costo di personaggi in cerca d’autore e il danno d’immagine sia al territorio nel suo complesso, fatto soprattutto di eccellenze, sia alle persone oneste. Oggi siamo vittima di una colonizzazione mediatica senza precedenti che si esercita da arene televisive nazionali con un martellamento combinato, se è vero che i novelli salvatori della Calabria vengono santificati in diretta nazionale. Il che è mortificante anche per gli editori e i giornalisti calabresi, i quali operano direttamente sul territorio e rischiano molto di più, alcuni anche a corto di mezzi adeguati e di solide garanzie professionali».
C’è il rischio che qualcuno approfitti di questo clima di semplificazione populista per farsi largo urlando e guadagnare un uditorio politico-elettorale?
«È il minimo che possa capitare. Aumentano i personaggi che sulle loro bacheche “social” producono in queste ore un linguaggio aggressivo e urlato con il proposito di intercettare il forte malcontento dell’elettorato, la rabbia e la frustrazione che monta anche per via dei gravi danni prodotti dalla pandemia. Non so se questo sia un rimedio peggiore dei mali. Di sicuro non è un rimedio». (p.petrasso@corrierecal.it)

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