RENDE Antichissima e fragile. La terracruda, un complesso impasto di argilla lasciato essiccare al sole, è il materiale con cui è stata modellata una parte importante del patrimonio archeologico buddista. Sculture ed elementi architettonici presenti in siti e templi diffusi lungo tutta la Via della Seta, poco conosciute e a rischio, perché la terracruda per sua natura è piuttosto instabile e tende a degradarsi molto facilmente, compromettendo lo stato di conservazione.
Uno studio, coordinato dall’Università della Calabria e dall’Università Politecnica di Valencia e pubblicato sulla rivista “Studies in Conservation”, ha permesso ora di far luce per la prima volta sulla tecnica utilizzata e sulla composizione del materiale utilizzato, fornendo indicazioni importanti per il restauro.
LA RICERCA Lo studio ha riguardato le statue del sito di Tepe Narenj, vicino Kabul, uno degli esempi di complesso archeologico buddista meglio conservato in Afghanistan. Le statue, realizzate in terracruda e ricoperte un tempo da stucchi policromi, sono ubicate nella sede di quello che era un antico monastero attivo tra il V e il IX secolo d. C.
La terracruda è un materiale molto fragile e difficile da trattare, anche nella fase delle analisi destinate a indagarne la composizione, e le tecniche più diffuse per ottenere informazioni dettagliate sono in prevalenza ‘distruttive’, perché implicano che i frammenti vengano tagliati o polverizzati.
I ricercatori in questo caso hanno usato invece un approccio innovativo e non invasivo, esaminando i frammenti disponibili mediante microtomografia computerizzata a raggi X. Queste nuove indagini, condotte all’Unical, hanno permesso di rilevare per la prima volta la presenza di fibre di origine vegetale utilizzate nell’impasto a base di argilla, ricostruendone la disposizione spaziale e la loro struttura in 3 dimensioni. Sono state determinate, inoltre, anche le esatte dimensioni delle componenti che costituiscono l’impasto e le loro proporzioni, fornendo ai restauratori informazioni fondamentali per riprodurre impasti compatibili da utilizzare negli interventi di restauro.
GLI AUTORI DELLO STUDIO La ricerca ha avuto anche il contributo della National Geographic Society, dell’Università di Calcutta, dell’Università di Barcellona, dell’Universitat Pompeu Fabra (Barcellona) e dell’Istituto di Archeologia dell’Afghanistan.
Il lavoro, che porta la prima firma della dottoressa Monica López-Prat dell’Università Politecnica di Valentia, è stato coordinato dal professor Domenico Miriello del Dipartimento di Biologia Ecologia e Scienze della Terra dell’Università della Calabria, coadiuvato dalla dottoressa Raffaella De Luca. Hanno collaborato i professori Raffaele Giuseppe Agostino e Vincenzo Formoso, il dottor Raffaele Filosa e la dottoressa Maria Caterina Crocco del Dipartimento di Fisica dell’Università della Calabria.
Le analisi non invasive sono state eseguite presso il laboratorio di microtomografia µTomo, presente all’interno dell’Infrastruttura di Ricerca STAR dell’Università della Calabria (progetto PON MaTeRiA).
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